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L’albero di mele si stagliava alto al centro del
prato antistante l’ingresso della casa in campagna. Ricordo mio padre in
equilibrio sulla scala, che sceglieva quelle più mature e le raccoglieva in un
cesto di vimini. L’aspetto era assai diverso da quelle in vendita al mercato.
Erano più piccole e meno belle, ma avevano un sapore pieno e intenso. Lui mi
sorrideva, porgendomene alcune: ”Sono biologiche, mangiale!”. “Puoi fidarti!”.
Allora non conoscevo, il significato di “alimento biologico” e non sapevo cosa
vi fosse dietro quel termine, ma pensai che un giorno, ne sarebbe valsa la pena
approfondire l’argomento.
L’etimologia del termine “Biologico” deriva dal greco
Biòs (vita) e Lògikos (attinente al discorso). Da ciò se ne
evince, pertanto, che se la biologia è lo studio della vita, in altre parole della
natura nel suo complesso, parlare di “alimento biologico” equivale a dare la
definizione di “un prodotto realizzato,
secondo metodiche e disciplinari, in armonia con la natura”. Sembrerebbe
tutto molto semplice eppure, dietro l’apparente semplicità del lemma, in realtà
si nasconde un mondo complesso e affascinante. La stessa definizione di
alimento biologico sarebbe di per se errata. Bisognerebbe, infatti, parlare di
alimento proveniente da agricoltura o allevamento biologico, poiché a essere biologico,
non è soltanto il prodotto finale, bensì il metodo di produzione nel suo
complesso. In
altre parole, il semplice aggettivo non basta a definire l’alimento biologico
in quanto tale, ma è l’intera filiera produttiva a monte dello stesso che deve
altresì soddisfare i requisiti “Bio”. Benché non esista, una definizione
univoca di “alimento biologico” possiamo tuttavia dire che, con suddetto
termine, s’intende un prodotto ottenuto attraverso pratiche agricole o di
allevamento che non prevedono l'ausilio d’alcun tipo di prodotto chimico di
sintesi o di OGM (Organismi Geneticamente
Modificati) e rispettando l'equilibrio naturale dello stesso.
Fatta questa
premessa, a questo punto è opportuno chiedersi come nasce un gelato bio e soprattutto quando
un gelato può definirsi biologico? Domande a cui il gelatiere del nuovo
millennio può e deve saper dare una risposta. Questo non soltanto perché
somministrare un alimento che soddisfi i requisiti del “biologico” è certamente
una sfida interessante, ma anche perché ci troviamo di fronte ad un mercato in
costante crescita, che può garantire notevoli soddisfazioni anche dal punto di
vista economico.
In quest’articolo, vedremo come si ottiene un alimento biologico,
in questo caso il gelato, tenendo conto delle varie fasi del processo
produttivo, e dei singoli ingredienti, senza trascurare l’assetto legislativo e
alcuni cenni storici che ci consentiranno di comprendere al meglio, come si è
giunti agli attuali sviluppi di mercato.
La
storia del biologico
Il secolo scorso è
stato teatro d’importanti cambiamenti che hanno interessato molti aspetti della
nostra vita quotidiana, non ultimo quello concernente l’alimentazione. Per
millenni l’uomo si è nutrito di prodotti derivanti, dalla coltivazione della
terra e dall’allevamento del bestiame. Le piante, in particolare, con cui
venivano nutriti gli animali, erano coltivate utilizzando metodi del tutto
naturali. I micro e macro nutrienti, di cui ogni pianta ha bisogno per vivere, erano
attinti e preservati nel terreno, utilizzando le conosciute tecniche di
rotazione agricola, ovvero alternando le colture dei campi di modo da non
impoverire il suolo di determinati elementi. Ciascuna coltivazione, infatti,
attinge dal suolo i nutrienti, in misura e percentuali diverse rispetto ad
altre cultivar. L’alternanza delle cultivar è un fattore quindi essenziale,
al fine di preservare l’equilibrio chimico del suolo, la biodiversità sul
territorio, oltre che sfavorire l’attecchimento di molti parassiti.
Questo
stato di cose è durato millenni, fin quando nel corso della prima metà del
secolo scorso, due fenomeni fecero la loro comparsa, in particolare nel mondo
occidentale. Eventi che gettarono le basi per un cambio radicale nei processi
agricoli e zootecnici tradizionali.
Il
primo cambiamento avvenne durante
i primi anni “30, quando il chimico tedesco Justus Von Liebig, introdusse il
concetto innovativo secondo cui, apportando al terreno, di forma artificiale,
elementi come potassio, azoto, fosforo, sotto forma di sali inorganici e urea,
si potevano garantire alle piante i nutrienti di base, senza ricorrere alle consuete
tecniche di rotazione. La scoperta segnò
l’avvento e la diffusione delle colture specializzate e intensive.
Il secondo cambiamento vide, nel periodo
successivo al secondo conflitto mondiale, l’immissione sul mercato di una vasta
gamma di fitofarmaci e antiparassitari derivanti dalla ricerca messa in atto
dall’industria chimica durante il periodo bellico. Il miraggio della
possibilità d’ottenere eccezionali livelli produttivi, grazie a sostanze
chimiche a basso costo, favorì la diffusione massiva e a livello globale di
queste sostanze. In pochi anni si passò quindi, da piccoli e numerosi
appezzamenti di terreno coltivati con metodi del tutto naturali e secondo sistemi
di coltivazione alternata, a immense distese di raccolti intensivi e
specializzati, su cui venivano utilizzati pesticidi, anticrittogamici e altre
sostanze chimiche, spesso in quantità oltre le soglia di sicurezza consentita. Gli
effetti avversi non tardarono a manifestarsi. Il picco che segnò livelli
d’intollerabilità e che spinse molti esperti a ricorrere ai ripari, si registrò
a cavallo degli anni “70-80” quando furono resi noti i problemi di tossicità di
alcuni pesticidi ad alta residualità ambientale. Molti ricorderanno lo scandalo
sul para-diclorodifeniltricloroetano comunemente
conosciuto come DDT. In Italia in particolare, il problema toccò livelli
insostenibili, quando dati statistici attendibili, segnalarono a fine anni
ottanta, che la sola Emilia Romagna utilizzava un quantitativo di fitofarmaci e
concimi di sintesi, superiore a quello di tutta la Germania occidentale. In
questo contesto nasce impellente, prima negli Stati Uniti d’America e poi in Europa,
parallelamente al fenomeno internazionale ambientalista degli anni settanta, la
necessità di ritornare a una forma d’agricoltura sostenibile che tenesse conto
di tutte quelle informazioni, osservazioni e sperimentazioni custodite per
millenni in seno alla saggezza contadina dei popoli e che pochi decenni d’industrializzazione
e pratiche intensive avevano quasi spazzato via completamente.
In risposta a
questo crescente bisogno, già nel corso della prima metà degli anni settanta,
molte aziende agricole, in particolare in USA ed Europa, ricominciarono a
produrre “alimenti biologici”, con metodiche agricole tradizionali e senza
l’ausilio d’alcun tipo di prodotti chimici di sintesi. Anche in Italia, nello
stesso periodo, fecero la loro comparsa associazioni e singoli agricoltori che
si occupavano di “Bio”, ma fino a quel momento erano pochi e male organizzati.
Le difficoltà produttive e i costi spesso insostenibili, inducevano i più a
desistere nell’intento. D’altra parte ancora non esisteva una chiara legislazione
nazionale in materia. Si dovette attendere la fine degli anni “80, quando emerse chiara l’esigenza di “regolamentare” il sistema biologico
italiano. Nel 1982 nasce la “Commissione
nazionale cos'è biologico”, con l'adesione dei movimenti dei consumatori,
dei coordinamenti regionali e delle organizzazioni dei produttori. La
commissione si trasforma in seguito in AIAB (Associazione
Italiana per l’Agricoltura Biologica) che nel 1988, presenta le prime “Norme italiane di agricoltura biologica”.
Da allora in poi, il mercato italiano del biologico, ha avuto una crescita
costante sino all’attuale contesto, che vede il nostro paese, secondo i dati
statistici comunicati dal SINAB (Il Sistema di
Informazione Nazionale sull'Agricoltura Biologica, realizzato dal Ministero
delle politiche agricole alimentari e forestali in collaborazione con le
Regioni) fra i principali produttori nella classifica mondiale per
superficie destinata alle colture biologiche, con ben 1.113.740 ettari (dati 2010).
La
legislazione
La prima direttiva comunitaria in tema “Bio” fu
varata nel 1991 dalla commissione europea dell’allora Europa a quindici membri
e pose fine alle quindici differenti agricolture bio
nazionali europee, definendo un metodo biologico e un marchio, unici a livello
comunitario. Il Reg. CE 2092/91, nello specifico, definiva l’agricoltura
Biologica come quel “sistema di
gestione dell'azienda agricola che comporta restrizioni sostanziali nell'uso di
fertilizzanti e antiparassitari, ai fini della tutela dell'ambiente e della
promozione di uno sviluppo agricolo durevole”. Per elaborare questa
definizione, la comunità europea si avvalse del Codex Alimentarius, un insieme di norme varate dai maggiori esperti
a livello internazionale, ancora oggi, punto di riferimento per molte questioni
in ambito agricolo e zootecnico.
Il Codex considera “l'agricoltura biologica come un sistema
globale di produzione agricola (vegetale e animale) che privilegia le pratiche
di gestione piuttosto che il ricorso a fattori di produzione di origine esterna”.
Secondo questa visione, i metodi colturali, biologici e meccanici vengono
impiegati di preferenza al posto dei prodotti chimici di sintesi. Con il Reg. CE 2092/91 si regolamentava in sostanza,
il metodo di produzione in ambito agricolo e l'indicazione di tale
metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari. Si dovette attendere,
qualche anno più tardi, nel 1999, quando con il Reg. CE 1804/99 vennero
regolamentate anche le produzioni animali. In seguito un’ulteriore revisione del Reg.
2092/91 portò nel 2005 alla nascita di due proposte da parte della Commissione
Europea, volte ad un'ampia semplificazione e ad un miglioramento della
normativa comunitaria, sia in tema d’importazione ed esportazione dei prodotti
biologici, che di produzione ed etichettatura: la prima proposta si concretò
con il Reg. del Consiglio 1991/2007, che di fatto applicava una modifica al
Reg. CE. 2092/91 in tema di commercio internazionale, ed entrò in vigore dal
gennaio 2007. L'altra, tuttora di grande rilevanza, il Nuovo Regolamento (CE)
n. 834/2007 del 28 giugno 2007, sulla produzione biologica, controlli ed
etichettatura dei prodotti biologici, fornì la definizione della produzione
biologica, il suo logo e il sistema di etichettatura ed entrò in vigore dal 1°
gennaio 2009.
Secondo il Reg. (CE) 834/2007, l’agricoltura biologica è quel
“sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione
agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un
alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali,
l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una
produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti
ottenuti con sostanze e procedimenti naturali. Il metodo di produzione biologico esplica pertanto una duplice funzione
sociale, provvedendo da un lato a un mercato specifico che risponde alla
domanda di prodotti biologici dei consumatori e, dall’altro, fornendo beni
pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli
animali e allo sviluppo rurale”. Il Reg. (CE) 834/2007 venne, più tardi, completato
dalle “norme tecniche di applicazione”
contenute nel Reg. (CE) 889/2008 della commissione del 5 settembre
2008, pubblicato sulla GUUE L 250 del 18/09/2008. Un regolamento quest’ultimo,
davvero molto atteso dagli addetti al settore. Se infatti è il Reg. (CE)
834/2007, ad indicare sinteticamente obiettivi, principi e norme generali sulla
produzione biologica, è il Reg. (CE)
889/2008 a stabilirne le norme applicative più specifiche e dettagliate.
Attualmente, in definitiva
il Reg. (CE) N. 889/2008 e il Reg. CE n. 834/2007, sono la
principale normativa a cui fare riferimento, in ambito “biologico”.
Vi è
inoltre, da tener presente il Reg. UE N. 271/2010 della
commissione del 24 marzo 2010 recante modifica del regolamento (CE) n.
889/2008, in cui si disciplina, l’utilizzo del nuovo logo biologico UE ( Fig. 1) . Nel regolamento si cita che “Il logo biologico dell’UE è utilizzato soltanto
se il prodotto di cui trattasi è prodotto nel rispetto
dei requisiti stabiliti dal regolamento (CEE) n. 2092/91 e dai suoi
regolamenti d’applicazione o dal regolamento (CE) n. 834/2007 e
dei requisiti stabiliti nel presente regolamento. Infine vi è una consistente normativa
nazionale che recepisce ed integra la normativa comunitaria, fra cui ci
limitiamo a citare il Decreto Ministeriale n. 18354 del
27/11/2009, recante “Disposizioni per
l’attuazione dei regolamenti (CE) n. 834/2007, n. 889/2008, n. 1235/2008 e
successive modifiche riguardanti la produzione biologica e l’etichettatura dei
prodotti biologici”.
Il gelato biologico
Moda
passeggera o filosofia di vita poco importa, ciò che conta è che il mercato del
gelato biologico ha un trend in
continua crescita. Secondo gli ultimi dati forniti dall’'ISMEA
(Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), il
solo 2010 ha visto in Italia, una crescita
del comparto alimentare legato all’agricoltura sostenibile, dell'11,6% su base
annua. Tra i prodotti di punta,
il 2010 ha evidenziato un'ottima performance per i lattiero caseari (+13,2% sulla
spesa domestica rispetto al 2009) e per l'insieme costituito da biscotti, dolciumi e snack (+13,5%). Nord-Est
e Mezzogiorno, rileva l’istituto, sono le macroripartizioni geografiche
in cui emergono i maggiori incrementi. anche se il Nord-Ovest è l'area con la
più alta incidenza sulla spesa nazionale. Il consumo di prodotti
biologici si conferma, comunque, un fenomeno localizzato prevalentemente nel
Nord Italia, che concentra da solo oltre il 70% degli acquisti.
Nonostante l’”apripista”
del mercato Bio, dopo la vendita diretta, sia stata la GDO, la vendita al dettaglio seppure poco rilevante, è il canale che ha fatto
segnare la crescita più marcata con un + 29,3%. La produzione del gelato
artigianale biologico, nello specifico. si attesta in ascesa in tutta Europa e
dopo la grande distribuzione, la sfida si sposta alle gelaterie artigianali,
dove sono sempre più numerosi i maestri gelatieri che si misurano nell’affiancare
ai propri gusti tradizionali, gusti di gelato biologico realizzati attraverso
l’impiego di materie prime selezionate e certificate.
Affinché un gelato possa
essere etichettato come biologico, infatti, dovrà centrare i criteri stabiliti
dalle normative comunitarie e nazionali citate in precedenza in quest’ articolo.
Nello specifico, al capo quarto, Art. 19, comma 1, del Reg. CE 834/2007,
relativo alla produzione di alimenti biologici trasformati, si legge
testualmente “La
preparazione di alimenti biologici trasformati è separata nel tempo o nello
spazio dagli alimenti non biologici”, ciò vuol dire che
il gelatiere che si accinga a preparare alcuni gusti di gelato biologico da
affiancare alla sua consueta produzione, dovrà farlo, destinando momenti specifici
della giornata lavorativa alla produzione dello stesso, affinché non vi sia
contiguità fra le due produzioni, e quindi in definitiva, affinché non vi sia “contaminazione”
fra le due produzioni. Gli operatori del settore alimentare, infatti, secondo
il Regolamento applicativo CE 889/2008 Cap. 3, Art. 26, Comma 4, nel produrre
un alimento biologico “adottano misure precauzionali per
evitare il rischio di contaminazione da parte di sostanze o prodotti non
biologici o comunque non autorizzati”, e inoltre qualora nello stesso ambito produttivo siano immagazzinati,
prodotti o trasformati anche alimenti “non biologici”, gli operatori “ effettueranno le operazioni in cicli
completi senza interruzioni e provvederanno affinché esse siano separate
fisicamente o nel tempo da operazioni analoghe effettuate su prodotti non
biologici” e comunque “ eseguiranno
le operazioni sui prodotti biologici solo dopo un'adeguata pulizia degli
impianti di produzione”. Sempre secondo il Reg. CE 889/08, il gelatiere che
riceva la fornitura di materie prime (che
ricordiamo dovranno essere certificate), da destinare alla produzione di
gelato biologico, dovrà stoccarle in magazzino tenendole separate dalle altre e
quindi, - si legge nella normativa - “provvederà
al magazzinaggio dei prodotti biologici, prima e dopo le operazioni,
separandoli fisicamente o nel tempo dai prodotti non biologici”. Vale la
pena aggiungere che, questa netta distinzione fra produzione di gelato bio e
convenzionale, dovrà estendersi anche agli utensili e accessori dedicati;
quindi vaschette, palette, bicchieri etc.
Insomma tutto ciò che sarà utilizzato per il gelato convenzionale non potrà
essere utilizzato per il gelato bio, eccezion fatta ovviamente, per i
macchinari che però dovranno subire accurata previa sanificazione, prima di
procedere alla produzione biologica. Tenuto conto di questi accorgimenti nella
scelta dei fornitori, nella ricezione delle materie prime, nello stoccaggio e
nella pulizia, vediamo adesso cosa ci attende, nella fase di produzione.
Innanzitutto gli ingredienti base dovranno, come già detto, essere
certificati biologici lungo tutta la filiera produttiva e la loro percentuale
minima dovrà essere del 95%. Essa si riferisce al “totale degli ingredienti ad eccezione dell’acqua e del sale da cucina aggiunti”. Nella produzione del gelato biologico sono
inoltre, ammessi additivi ed eccipienti, purché ritenuti idonei dalla normativa
quadro, così come riportato nell’All. VIII del Reg. 889/08. Fra gli additivi
consentiti ricordiamo ad esempio (carragenina,
acido citrico, acido ascorbico, gelatina, colla di pesce etc.). Gli
aromatizzanti consentiti nella produzione del gelato bio, saranno a loro volta,
esclusivamente di origine naturale. Non è consentito altresì l’utilizzo di
coloranti di sintesi o additivi se non presenti nel disciplinare della
normativa comunitaria. Sono invece consentiti nel processo di trasformazione
dell’alimento biologico, alcuni alimenti non biologici, ritenuti innocui o
comunque idonei dalla commissione ed elencati nell’allegato IX del Reg. 889/08
fra cui ricordiamo: (Frutti e semi commestibili come: Ghiande, Noci di cola, Uva spina, Frutti della passione, Lamponi essiccati, Ribes
rosso essiccato), (Grassi ed oli vegetali anche raffinati purché non modificati
chimicamente ottenuti da: Cacao, Cocco, Olivo, Girasole,
Palma, Colza, Cartamo, Sesamo, Soia), (Zuccheri, amidi e altri prodotti ottenuti da cereali e tuberi come: Fruttosio,
Cialde di riso, Sfoglie di pane azzimo, Amido di riso e granturco ceroso
chimicamente non modificato). Nella produzione del
gelato bio, il gelatiere dovrà inoltre accertarsi che nessun ingrediente
ammesso sia ottenuto o derivato da OGM (Organismi
geneticamente modificati). Quando la percentuale d’ingredienti biologici
utilizzati, oscilli fra il 70 ed il 95%, l’operatore dovrà, altresì, apporre
sul prodotto, una etichetta indicante l’elenco e l’esatta percentuale degli
stessi e non potrà avvalersi del logo UE. Nel caso la percentuale d’ingredienti
biologici utilizzata, come già detto, superi invece il 95%, non sarà necessario
riportare la percentuale d’ingredienti biologici ma basterà applicare al
prodotto il logo comunitario (Fig.1).
Tuttavia, nel caso la percentuale d’ingredienti biologici superi o sia pari al
95%, ma non raggiunga il 100% del prodotto, la percentuale residua dovrà, comunque,
rientrare fra i componenti consentiti ed elencati nel disciplinare europeo. Affinché
questi obblighi siano rispettati, la normativa comunitaria istituisce degli
organismi di controllo che vigilano sulle aziende.
Gli organismi di controllo
preposti, sono di solito enti privati a cui la legge assegna il compito di
verificare il rispetto dei regolamenti attuativi da parte delle aziende
biologiche e di rilasciare, a fronte di visita ispettiva il “Documento giustificativo” ovvero il “Certificato di conformità” secondo
quanto stabilito dall’art. 29 del Reg. CE 834/2007 e concedere di seguito, il
marchio da apporre alle etichette dei prodotti venduti. Gli organismi di
controllo, meglio conosciuti come “Enti certificatori di prodotti biologici”, sono
a loro volta riconosciuti e autorizzati dal Ministero delle politiche agricole e forestali. Il gelatiere che decida, quindi, d’avviare la produzione e
somministrazione di gelato biologico, dovrà notificarlo in duplice copia
all’assessorato all’agricoltura della propria regione d’appartenenza e all’ente
di certificazione prescelto, che si occuperà fra l’altro della visita ispettiva
e del rilascio dei certificati d’idoneità oltre che del logo. Ricordiamo che
gli enti di certificazione sono preposti al controllo ed alla verifica e non
all’assistenza tecnica.
A proposito del logo inoltre, è bene sottolineare, che
sulla base della normativa comunitaria, esso si deve apporre ai prodotti chiusi confezionati ed etichettati con
una percentuale prodotto di origine agricola bio almeno del 95%, quindi, nel
nostro caso, solo sui gelati confezionati. Per i gelati freschi sarà
sufficiente apporre il “cartello unico”, dove s’informerà il cliente sulla
genuinità del prodotto bio e dei suoi ingredienti. Risulta del tutto evidente,
alla luce di quanto sopra esposto, che la sfida, del gelatiere che decida
d’offrire alla propria clientela del gelato biologico, si gioca sostanzialmente
su due fronti:”l’attenta scelta delle materie prime e quindi dei fornitori e un’accurata
pianificazione e gestione della produzione di gelato bio che dovrà nettamente
separarsi dalla convenzionale”. In realtà, la capacità di saper trasmettere al
cliente questa distinzione fra le due produzioni è un fattore chiave di
successo.
Il biologico ha un suo linguaggio oltre che una sua filosofia ed è
bene che il gelatiere ne tenga conto affinché il messaggio passi in maniera
chiara e inequivocabile al cliente. Un adeguato addobbo della vetrina dedicata
al biologico nonché creatività e gusto nella presentazione del gelato, che
rimandi ai temi della natura e del vivere sano, sarà certamente un valore
aggiunto su cui investire.
Il cliente del biologico, d’altra parte è di solito
un cliente attento e sensibile ai temi ambientali e della salute e gli addetti
del settore, generalmente lo distinguono secondo tre profili: ”L’attento, il curioso e l’informato”.
L’attento è colui che presta molta attenzione alla salute sua e
della sua famiglia e per cui cerca nel prodotto biologico quella garanzia di
genuinità e quella “rassicurazione”, che altri prodotti non riescono a
trasmettergli. Il curioso, invece è
colui che passando di fronte al negozio, in questo caso alla gelateria, e
vedendo il gusto bio, decide d’entrare per provare la novità e soddisfare la
sua sete di curiosità. L’informato infine,
è colui che ha letto e studiato le caratteristiche del biologico, ne conosce tutti
gli aspetti e decide d’acquistarlo con ragion di causa.
Al di là di questo, in conclusione, possiamo dire che biologico
è certamente sinonimo di qualità. Scegliere un gelato biologico
vuol dire niente grassi idrogenati, aromi sintetici, stabilizzanti o coloranti
artificiali. Le materie
prime accuratamente selezionate, certificate e provenienti da produttori
conosciuti e affidabili, garantiscono che le basi per un prodotto d’eccellenza,
ci siano tutte. I parametri estremamente rigorosi e selettivi nella concessione
del logo comunitario, fanno si che il cliente attento e sensibile si senta
rassicurato sulla genuinità e sia quindi disposto a pagare quel sovrapprezzo
che attualmente caratterizza i prodotti bio rispetto ai convenzionali. Dedicarsi
al biologico può quindi essere una scelta appagante sia dal punto di vista
professionale che remunerativo. Certamente bisogna essere disposti a dedicarvi
tempo sia in termini d’aggiornamento sia di maggiore attenzione in fase
produttiva ed espositiva.
La sfida ad ogni modo è interessante ed è aperta, non
resta che raccoglierla, non accontentandosi mai della mediocrità ma puntando
sempre all’eccellenza e ricordandosi che acquistare un prodotto biologico,
spesso vuol dire contribuire alla salvaguardia di un piccolo appezzamento
produttivo di alta montagna che senza questa tipologia di mercato,
probabilmente avrebbe già chiuso i battenti da un pezzo.