sabato 8 dicembre 2018

MATTIA FELTRI, FIGLIO DEL PIU' CELEBRE VITTORIO, E' IL VINCITORE DEL PREMIO:" E' GIORNALISMO 2018"

Vittorio Feltri con il figlio Mattia

Il giornalista Mattia Feltri, figlio d'arte del ben più celebre Vittorio, ha ricevuto il premio "E' Giornalismo 2018". Il "prestigioso riconoscimento" istituito da Enzo Biagi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca e dall'imprenditore Giancarlo Aneri, ha visto in passato, sul podio del vincitore, l'alternarsi di nomi assai conosciuti al grande pubblico, fra i quali ricordiamo:" Curzio Maltese, Gianni Riotta, Natalia Aspesi, Barbara Spinelli, Fabio Fazio, Sergio Romano, Mario Calabresi, Massimo Gramellini, Enrico Mentana e l'eccezionale Fiorello".

La giuria composta dallo stesso Aneri, in qualità di presidente, oltre a Gian Antonio Stella, Giulio Anselmi, Mario Calabresi, Massimo Gramellini, Paolo Mieli e Gianni Riotta, ha riconosciuto il premio, giunto alla sua 22ma edizione, al "giovane" Mattia Feltri, riconoscendo a latere, un premio, altresì, alla "famiglia giornalistica".

Interessante notazione, quella della "famiglia giornalistica", che vede in Italia, il passaggio, dello scettro del prestigio e del potere professionale, di generazione in generazione, da padre in figlio

Notai, Medici, Avvocati, Giornalisti e persino impiegati delle poste o dei Ministeri etc, come nelle dinastie monarchiche, si alternano sul trono professionale conquistato, per diritto di sangue. 

Nulla di male, per l'amor del cielo, se non fosse che per i "comuni mortali", figli della plebe, come disse Tiziano Terzani in questa intervista al minuto 2:57 https://www.youtube.com/watch?v=-n1ehDye_og , spesso, non resta che emigrare.

domenica 2 dicembre 2018

EURES:" ITALIA 29ma NELLA CLASSIFICA EUROPEA A 32 PAESI, PER DISPONIBILITA' LAVORATIVA"


Secondo un recente comunicato stampa dell'ISTAT, il tasso di disoccupazione in Italia, al terzo trimestre 2018, si attestava al 10,8%  https://www.istat.it/it/archivio/224515

Distanza siderale, ovviamente, dal 3,4% del tasso di disoccupazione in Germania, rilevato nell'agosto dello stesso anno.

Eppure, sarebbe ben poca cosa, se considerassimo come "cartina al tornasole" dello "spread occupazionale" fra Italia e Germania, la quantità di posizioni lavorative messe a disposizione, dai rispettivi paesi europei, per il circuito Eures. 

L'Eures, (European Employment Services), lo ricordiamo è un'agenzia dell'Unione europea istituita per facilitare la mobilità occupazionale fra gli Stati membri, oltre alla Svizzera e altri.

Ebbene, come facilmente rilevabile dallo screenshot postato, la differenza fra la Germania e l'Italia è di quasi un milione di posti di lavoro messi a disposizione dai tedeschi a fronte dei 524 posti di lavoro messi a disposizione dagl'italiani ( per inciso, meno della piccola isola di Malta che ne mette a disposizione ben venti di più, ovvero 544 ).

mercoledì 28 novembre 2018

" LO STATUS E' UN FATTO MENTALE ! "





Quando ero in Germania, un giorno nel dipartimento di Biologia dell'Università, entrò un gruppo di una decina di ragazzi e ragazze ben vestiti. Li ricordo come se fosse oggi:

" I maschi indossavano un completo scuro in giacca e cravatta. Camminavano con passo allungato e sicuro, petto in fuori e pancia in dentro. Con il volto ben rasato e lo sguardo sicuro, reggevano nella mano destra una valigetta di pelle nera che faceva pendant con le scarpe lucide dello stesso colore. 

Le donne, belle come valchirie, vestivano un talleur scuro che faceva contrasto con il biondo dei capelli e l'azzurro degli occhi. Anche loro, come i maschi, camminavano con passo sicuro e fare altezzoso, mentre sull'avambraccio, piegato quasi a simulare un involontario "gesto dell'ombrello" rivolto verso i comuni mortali chje le ammiravano, reggevano delle borsette firmate, dall'apparente inestimabile valore.

Il gruppetto, senza guardarsi intorno, dopo avere attraversato, con rapido passo, il corridoio che dava sui nostri laboratori, entrò nell'ufficio del Prof. responsabile del nostro dipartimento.

Dopo circa una mezzoretta, la porta del Prof. si riaprì e dall'interno della stanza fuoriuscì il gruppo di ragazzi, preceduto da risate, pacche sulle spalle ed un vociare alto che si mescolava ad un gradevole profumo di qualche marca d'alta moda.

Quando si furono allontanati, incuriosito, mi rivolsi al mio collega teutonico biologo. 

Il ragazzo si chiamava Peter e la sua immagine era a dir poco antipodale rispetto a quella dei ragazzi appena usciti. Perennemente incurvato sullo schermo del computer, più grasso che lungo, da quando lo conoscevo vestiva sempre gli stessi abiti:" Un maglione di lana verde, comprato forse ai mercatini di seconda mano della domenica ed un jeans sdrucito che fungeva anche da salvietta puliscimani, dopo i frequenti spuntini che il buon Peter ingurgitava tutto d'un fiato così come una foca inghiotte un pesce lanciatogli dall'istruttore. Per non parlare dell'olezzo che emanava e che non era affatto un profumo d'alta moda come quello dei ragazzi appena usciti, quanto un misto di mostarda, ketchup e forse wrustel ben cotto".

Come stavo dicendo, mi rivolsi a lui e gli chiesi:

" - Scusa Peter, chi erano quei ragazzi appena usciti dalla stanza del Prof. ? Sono forse ispettori ?

- No, no! Rispose Peter, accennando un sorriso sotto i baffi leggermente unti dal probabile companatico dell'ultimo panino ingurgitato. Quelli sono studenti della facoltà di Odontoiatria. Si vestono così perchè hanno già acquisito lo status di Dentisti. Sai...sono prossimi alla laurea ed il nostro Prof. è coordinatore interfacoltà !".

La sua risposta mi lasciò basito ed alquanto perplesso. 

Mentre mi guardavo intorno e vedevo i miei colleghi Biologi, già laureati, il paragone con i "quasi dentisti" appena usciti fu inevitabile. Sembrava la saga dei "ricchi e poveri". Da una parte c'eravamo noi biologi, pingui o smunti e malvestiti e dall'altro c'erano loro.

La riflessione fu inevitabile ed allora capii che volente o nolente, esistono facoltà di serie A e facoltà di serie B e non è un fatto solo italiano. Anche nell'avanzata Germania, lo "status" è più un fatto mentale che un traguardo fisico, economico, concreto raggiunto. 

Ciò che da sicurezza ad un Uomo non è tanto quello che sta facendo in quel momento, ma le possibilità e le prospettive che quello che sta facendo potranno garantirgli in termini di crescita personale futura. 



In altre parole, vale più intraprendere un cammino difficile ma che sai un giorno ti condurrà sulla vetta della montagna, piuttosto che incamminarsi per una pianura dove sai già che, nonostante l'impegno ed i chilometri che potrai accumulare alle spalle in decenni di carriera, ti condurrà sempre in un altro punto di quella piatta ed insignificante pianura.

giovedì 1 novembre 2018

CATASTROFE ITALIA:" TUTTI I DATI REALI SU MATRIMONI E DIVORZI ! "


"Give me liberty, or give me death!" ("Datemi la libertà o datemi la morte"), sentenziava, in un suo storico discorso, l'americano già primo governatore dello stato della Virginia fra il 1776 e il 1779, Patrick Henry

Vero, noi italiani, abbiamo perso la "grande guerra" e di fatto, d'allora siamo un paese occupato, tuttavia nessuno, avrebbe mai potuto immaginare, che gl' italiani avrebbero seguito, a distanza di circa due secoli e mezzo, forse un po' troppo alla lettera, le parole di Henry. 

La libertà è senza ombra di dubbio un valore fondamentale nella vita di un Uomo e oggi, gl' italiani, sia uomini che donne, sembrano volerla ricercare ed applicare in ogni ambito della propria esistenza, matrimonio incluso.

Gli ultimi dati Istat, a proposito di connubi, fotografano la situazione di un paese in radicale e profonda trasformazione. Basti pensare che negli ultimi 20 anni le unioni di lunga durata in Italia sono diminuite quasi di un quarto; per la precisione, la quota di divorzi, relativa ai cosiddetti matrimoni di lunga durata (vale a dire quelli uguali o superiori a 17 anni) è passata dall’11,3 per cento del 1998 al 23,5 per cento registrata a fine 2017.

Per quanto riguarda i divorzi, infatti, si nota una spinta molto forte, grazie anche all’approvazione della cosiddetta legge del “divorzio breve” approvata nel corso dello stesso 2015, con la quale si riducono in maniera drastica i tempi che devono intercorrere obbligatoriamente tra il provvedimento di separazione e quello effettivo di divorzio, dai 52.355 divorzi riscontrati nel 2014 si è giunti nel 2015 alla registrazione di 82.469 casi.
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In pratica, in un solo anno 2014-2015, le pratiche di divorzio sono aumentate di 30.000 unità. Questi dati, relegano ovviamente, agli ultimi posti nel ranking mondiale delle unioni matrimoniali, il nostro paese. In sostanza l'Italia non è solo un paese, dove ci si sposa di meno ma anche dove i matrimoni, durano di meno in assoluto. Diciamo che le parole del buon vecchio Henry, agl'italiani, gli fanno un baffo.
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Per non parlare dei dati sui single, ovvero dei celibi e nubili, insomma dei fortunati, volendo utilizzare un neologismo applicabile ai tempi moderni e all'indirizzo "ammeregano",  che il nostro paese, inevitabilmente, sembra avere intrapreso ormai da anni.

Il verdetto è di quelli inappellabili e che non lasciano adito ad interpretazioni di sorta:" Nella classe di età fra i 45 e i 54 anni, quasi un uomo su quattro, non si è mai sposato mentre è nubile quasi il 18% delle donne. 
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Nella fascia d'età fra i 55 e i 64 anni, i divorzi rispetto all'anno 1991, sono più che quadruplicati.


Al 1° gennaio 2018 i celibi hanno in pratica raggiunto i coniugati (15-64 anni): 47,7% contro 49% della popolazione totale; Le coniugate, invece, continuano a prevalere sulle nubili (55% contro il 39%).
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Insomma se è vero che il matrimonio è un artefatto creato dall'uomo e mai voluto dal creatore, almeno in Italia, siamo sulla buona strada per portarlo a completa estinzione.
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Il dubbio, a questo punto, che è lecito porsi è:" Siamo proprio sicuri che l'incremento dei single nella società, sia un fenomeno casuale e non voluto ? ".

SpeedDate.it, il portale che offre ai single, il modo per incontrare nella vita reale gente nuova e potenziali partner, ha diffuso uno studio in cui emerge che, rispetto a chi è in coppia, le persone che scelgono di vivere senza l'altra metà, affrontano un costo della vita superiore in media del 69%. 

Per i single il costo per l'abitazione è doppio: in media 700 euro mensili contro i 350 euro di chi vive in coppia, anche perché gli appartamenti di piccolo taglio sono proporzionalmente più costosi di quelli più grandi. Così come spendono di più per il cibo e per le bevande: in media 540 euro mensili contro i 250 euro di chi vive in coppia.

Sostanzialmente, diciamocela tutta, i single , sono funzionali alla società del capitale. Una coppia, infatti, ha bisogno di un solo frigorifero, di una sola TV, di una sola lavatrice, di un solo appartamento etc. Una coppia scoppiata, ovviamente avrà bisogno di due frigoriferi, due TV, due lavatrici, due appartamenti etc.

Non solo, la spinta a far sposare i cittadini, dovrà essere accompagnata, negli anni successivi al matrimonio, ad una altrettanta spinta a favorire i divorzi. Solo in questo modo si massimizzeranno le spese, i costi e quindi l'indotto economico, apportato al bilancio della società.

Direi a questo punto di terminare con una frase di Confucio: “ Per mettere il mondo in ordine, dobbiamo mettere la nazione in ordine. Per mettere la nazione in ordine, dobbiamo mettere la famiglia in ordine, Per mettere la famiglia in ordine, dobbiamo coltivare la nostra vita personale, Per coltivare la nostra vita personale, dobbiamo prima mettere a posto i nostri cuori.”

sabato 6 ottobre 2018

BIOLOGIA MARINA:" INTERVISTA A MARTINA RIGHETTI "


 

BIOLOGIA MARINA
“ INTERVISTA A MARTINA RIGHETTI ”
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La figura professionale del Biologo Marino è forse la più amata ed ambita, fra le diverse specializzazioni post laurea, che un Biologo possa intraprendere. La possibilità di lavorare a contatto con il mare, spesso in contesti internazionali, è una prospettiva che attrae un numero crescente di giovani. Martina Righetti, Biologa, seppur giovanissima, sembra avere le idee molto chiare sul suo futuro professionale ed in questa intervista, ci racconta la sua storia e le sue aspettative di vita e di lavoro.



Ciao Martina. Qual è attualmente, il percorso di studi ideale, per diventare Biologi Marini ?

Ciao! Io mi sono iscritta all’Università Politecnica delle Marche, dove è possibile intraprendere un percorso di studi della durata di 3 anni in scienze biologiche per poi specializzarsi in biologia marina, grazie ad una laurea magistrale della durata di 2 anni. A mio avviso, la facoltà di Ancona è molto valida, per diventare biologi marini. Personalmente, posso dire di avere avuto l’onore di ricevere insegnamenti da professori di notevole spessore, sia nazionale che internazionale. Nel percorso di studi, oltre alle normali lezioni, sono previsti, fra l’altro, diversi laboratori pratici e seminari, che sono stati per me spunto di approfondimenti molto utili e interessanti.


Come nasce la tua passione per la Biologia Marina ? Raccontaci un po’ di te
La passione per la biologia marina mi accompagna sin da bambina. Già allora ero innamorata di delfini e balene e il mio gioco preferito, a dieci anni, era indovinare le specie di cetacei dalle fotografie. Sentivo che erano tutto il mio mondo e da lì, la passione si allargò al campo marino in generale; ora posso dire che vivo per questo e non riesco a immaginare una vita diversa e più bella. Ho avuto, inoltre, la fortuna di avere una famiglia che ha sempre appoggiato questo mio amore. A sedici anni, feci i primi volontariati per il soccorso di delfini spiaggiati e per il monitoraggio di delfine incinta in ambiente controllato. Presto arrivò il primo brevetto subacqueo e i primi viaggi per il monitoraggio di delfini in libertà. Il desiderio di iscriversi in una facoltà di biologia marina era così grande che non vedevo l’ora di finire il liceo.

A tuo parere quali sono le caratteristiche e gli “skills”, che un aspirante Biologo Marino dovrebbe avere ?
Dico sempre che per fare questo lavoro bisogna essere degli spiriti liberi, non bisogna solo avere voglia di viaggiare e di mettersi in gioco, bisogna sentirlo dentro, è un bisogno che diventa una seconda pelle. Un vero biologo marino è una persona che non riesce a stare troppo tempo nello stesso posto, ha bisogno di viaggiare e di conoscere ogni angolo di questo grande oceano meraviglioso che ci circonda…e con questo, non intendo solo posti come Maldive o Caraibi. Quando ami il mare, anche l’angolo più remoto del pianeta è fonte di curiosità e conoscenza. Un vero biologo marino deve mettere in conto che la propria vita non sarà mai routine. Bisogna avere voglia di conoscere e scoprire, sempre. Avere un grande spirito di adattabilità, avere il grande amore di vivere a contatto con la natura, il più delle volte senza i comfort che la vita di oggi ci offre. Ma il bello di questo lavoro, a mio parere, è proprio questo.


  
So che in qualità di Biologa Marina, hai già avuto un’esperienza lavorativa all’estero. Vuoi parlarcene ?
Attualmente, sto completando il mio ultimo anno di percorso magistrale, ma durante i miei anni di studio ho avuto l’opportunità di fare la mia prima, vera, esperienza lavorativa all’estero. Ho lavorato sei mesi in Mar Rosso, a Berenice, in un resort, come biologa marina turistica. Il mio compito era di tipo divulgativo, organizzavo delle uscite di snorkeling  e gite in barca per gli ospiti della struttura, spiegando ciò che si poteva incontrare, come coralli e pesci del reef; inoltre tre sere a settimana, facevo delle lezioni di biologia marina e durante il giorno, anche passeggiate naturalistiche nella vicina foresta di mangrovie. La cosa più bella che questa esperienza mi ha regalato è stata quella di trasmettere la mia passione a chi, magari, si avvicinava a questo mondo per la prima volta. Vedere lo stupore delle persone, grandi e piccini, la voglia di imparare, di capire ciò che stavano vedendo, per me era fonte di grande gioia. Senz’altro un input e una conferma che il mare sarebbe stato per sempre la mia vita, il tutto poi confermato dai giudizi positivi degli ospiti. Non c’è stato giorno in cui questo lavoro sia stato un peso. Spesso facevo più di quel che dovevo, proprio perché era semplicemente un piacere. E’ stato meraviglioso toccare con mano ciò che si studia per anni sui libri, vedere certi fenomeni della natura che prima potevi solo immaginare. Adesso sono ritornata in Italia per completare gli studi, ma appena potrò, penso proprio di fare i bagagli e ripartire. 




Secondo te quali sono le prospettive lavorative per questa professione, in Italia ? Quali le prospettive all’estero ?
In Italia, purtroppo, gli orizzonti non sono così rosei. Questo è un peccato, perché abbiamo un mare bellissimo di cui conosciamo veramente poco e le risorse che si investono per la ricerca in questo settore, sono davvero ridotte. Penso inoltre che la biologia marina, in Italia, venga vista, ancora come un campo “nuovo” e poco esplorato. La mia impressione è che all’estero sembrano aver compreso, prima di noi, che il mare è un bene prezioso per tutto il Pianeta e come tale andrebbe tutelato. Basti pensare, ad esempio, all’importante ruolo che esso ricopre nei cambiamenti climatici. Conoscerlo e preservarlo è un compito fondamentale di tutta l’umanità. In definitiva credo che le prospettive all’estero siano molte di più, sia in ambito ricerca che divulgativo.

Cosa pensi di fare una volta conseguita la laurea specialistica. 
Hai già dei progetti ?
Credo che una delle ambizioni più grandi che un biologo marino possa avere, sia quella di rimanere in ambito universitario dopo la laurea e quindi fare ricerca. Non è così facile purtroppo, soprattutto in Italia. Un mio sogno sarebbe quello di fare, magari, un master post-laurea all’estero, oppure continuare a fare qualche esperienza di tipo divulgativo, magari lavorando in un diving center. Trasmettere la mia passione è una cosa che ho scoperto, piacermi tantissimo. In futuro mi piacerebbe molto aprire un mio Ecolodge magari in Madagascar, terra che amo molto. Un posto dove possa alloggiare chi veramente voglia dedicare completamente il proprio tempo al mare e desideri trascorrere un viaggio all’insegna della scoperta e del rispetto per la natura. Sono convinta che il rispetto per il nostro mondo nasca proprio dalla conoscenza, e il dovere principale di noi biologi in quanto scienziati è quello di informare, divulgare e far conoscere.
 

ARRIVI TURISTICI:" IN SOLI VENTI ANNI LA SPAGNA HA GUADAGNATO QUASI TRENTA MILIONI DI ARRIVI TURISTICI IN PIU' RISPETTO ALL' ITALIA "




Quando si parla d'Italia nel mondo, normalmente il pensiero corre al buon cibo, alla sua storia, all'arte, alla cultura, al Papa e al Vaticano, a Roma, Venezia, Firenze, al bel clima, al mare, alle sue spiagge e alle sue coste meravigliose, al maggior numero di siti Unesco. Da una simile ricchezza e direi fortuna, ci si aspetterebbe di essere il primo paese al mondo per numero di arrivi turistici. Per raggiungere tale obbiettivo infatti, non sarebbe stato necessario un Manager straordinario, bensì semplicemente un Manager mediocre, che però avesse perseguito il bene dell'Italia. Invece no.

Secondo una classifica stilata dall'Organizzazione Mondiale del Turismo, in seno alle Nazioni Unite, consultabile a questo sito https://en.wikipedia.org/wiki/World_Tourism_rankings l'Italia, ferma al quinto posto con 58.300.000 arrivi turistici nel 2017 è stata distaccata di oltre venti milioni di arrivi, sia dalla Spagna 81.800.000 arrivi, che dalla Francia 86.900.000.

Bisogna sottolineare che questo, non è un semplice esercizio di comodo, teorico, fine a se stesso. Secondo il World Economic Forum, per l'Italia, colmare il gap, ad esempio, con la Spagna, equivarrebbe a guadagnare oltre due punti di pil https://www.repubblica.it/economia/2018/04/22/news/spagna-italia_dal_turismo_gli_iberici_guadagnano_40_miliardi_in_piu_-194539494/

D'altra parte, il sorpasso turistico della Spagna sull'Italia è coinciso con il sorpasso degli spagnoli, sul nostro Pil pro-capite https://www.eleconomista.es/economia/noticias/9085006/04/18/Economia-Espana-supero-a-Italia-en-riqueza-por-habitante-en-2017-segun-el-FMI.html . Nel 2017, infatti, il Fondo Monetario Internazionale ( acronimo FMI), ha attribuito, per la prima volta nella storia contemporanea, un PIL pro-capite agli spagnoli di 38.285,966, superiore a quello italiano fermo a quota 38.140,338 dollari, peraltro fortemente sbilanciato in termini distributivi. Nello stesso anno solare inoltre, la Spagna ha incassato con il turismo, ben 87 miliardi, a fronte dei 40 miliardi italiani.

Ridicolo il siparietto dell'ex ministro per l'economia Padoan, quello che non sapeva quanto costava un litro di latte per intenderci, quando raggiunto dagli sconfortanti dati sul turismo italiano, comunicati dal FMI, mentre era in conferenza congiunta proprio con la presidente Christine Lagarde http://www.lastampa.it/2018/04/21/economia/crescita-turismo-e-agroalimentare-cos-la-spagna-sorpassa-litalia-GrMh51UiHnZtdfQUKHK4SP/pagina.html , ebbe il fegato di dire : «La strategia attuata dal governo è stata corretta». Immaginatevi se fosse stata sbagliata.

Deprimenti i dati sulla perdita di turisti tedeschi:" Negli ultimi venti anni l'Italia ha perso 35 milioni di pernottamenti di turisti provenienti dalla Germania https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/09/21/turismo-italia-spagna-partita/ ". Nello stesso articolo de Il Sole 24 Ore, viene tracciato, inoltre, un interessante quadro analitico, sul perché l'Italia sia stata sorpassata in maniera così brutale dalla Spagna, in termini turistici. Il resoconto, sostanzialmente, attribuirebbe il gap ad una mancata percezione, da parte della classe dirigente italiana, dell'importanza del turismo, nella crescita dell'economia.

Sempre nell'articolo del quotidiano economico, si legge infatti: 

" Negli anni 50/60 la Spagna intuì che il turismo sarebbe stato fondamentale per uscire dall’isolamento causato dalla guerra. Manuel Fraga Iribarne, ministro dell’Informazione e del Turismo dal 1962 al 1969, fu una figura fondamentale in questo processo. Durante il suo mandato fu lanciata la prima di tante campagne di successo. Lo slogan “Spain is different “ puntava a mostrare al mondo un paese con molte facce ancora sconosciute. A lui si deve anche l’espansione della catena dei Paradores e molte altre iniziative per il successo del Turismo e di quello che possiamo chiamare Sistema dell’Accoglienza in Spagna.
«Se la Spagna nel 1951 accoglieva 1,3 milioni di stranieri, nel 1965 ne riceveva 14,3 milioni, e nel 1990 34 milioni» Storia del Turismo in Italia, A. Berrino.
La Spagna ha fatto dello sviluppo di località costiere ed isole la sua fortuna nell’onda del Turismo delle “4 S’ (Sun, Sea, Sand and Sex). Non a caso una campagna di successo negli anni 80 recitava Everything under the Sun. 

Ciò che il quotidiano economico nazionale non dice nella sua interessante analisi e che non troverete in nessun quotidiano o mass-media mainstream è che il gap in termini di arrivi turistici, fra la Spagna e l'Italia non viene da lontano, ma si è generato negli ultimi venti anni, ovvero durante i governi della Seconda Repubblica.

La Banca dati Mondiale sul Turismo infatti, parla chiaro:

" Nel 1995 il numero di arrivi turistici in Spagna era pari a 32.971.000 presenze ".

" Nel 1995 il numero di arrivi turisti in Italia era pari a 31.052.000 presenze " .

Sostanzialmente, quindi, al 1995, le presenze turistiche fra l'Italia e la Spagna, ancora si equivalevano. Ergo il gap, fra i due paesi, si è generato nei venti anni successivi.

I dati sono consultabili qui ( in Spagnolo):  https://datos.bancomundial.org/indicador/ST.INT.ARVL?locations=ES-IT

Inutile girarci intorno, i danni causati al nostro paese, dall'establishment che ha governato l'Italia dai primi anni novanta ( periodo d'inizio delle privatizzazioni fra l'altro) ad oggi, sono stati enormi.

* A questo link è consultabile lo storico dei Governi susseguitisi in Italia, dal dopoguerra ad oggi http://www.governo.it/i-governi-dal-1943-ad-oggi/i-governi-nelle-legislature/192



giovedì 4 ottobre 2018

" INTERVISTA A LAURA PORTAS, BIOLOGA E BIONFORMATICA "

Risultati immagini per LAURA PORTAS BIOLOGA


Ciao Laura. La Bioinformatica è una disciplina relativamente nuova che sta interessando un numero crescente di giovani. Qual è stato il tuo approccio a essa e con quale percorso di studi ci sei arrivata ?

Dopo aver conseguito la laurea in Biologia, ho frequentato un Master in Tecnologie Bioinformatiche applicate alla Medicina Personalizzata che prevedeva al termine del corso di studio uno stage in azienda per l'elaborazione della tesi finale. Ciò mi ha consentito di entrare nel mondo del lavoro e di mettere in pratica tutte le nozioni apprese durante il mio corso di studi. Il Master comprendeva diverse materie che spaziavano dalla proteomica alla farmacogenomica e mi ha fornito delle nozioni di base su diversi aspetti riguardanti il vasto mondo della Bioinformatica. Al termine del periodo di stage l'azienda mi ha proposto di continuare il mio lavoro con un contratto di collaborazione e da lì è iniziata la mia avventura in questo settore.

Spesso si sente dire che per essere un bravo Bioinformatico serve un background formativo in Informatica e dopo bisogna acquisire le conoscenze di tipo biologico. Altri sostengono il contrario. Meglio studiare prima Biologia e dopo specializzarsi in Bioinformatica. Alla luce della tua esperienza qual è il percorso più adatto ?

Alla luce della mia esperienza posso dire che ritengo fondamentale un background biologico per poter essere un bravo Bioinformatico perché penso sia necessario conoscere i complessi meccanismi biologici che si studiano al fine di poter utilizzare i modelli statistici più adeguati e di poter interpretare i risultati ottenuti. Ritengo che comunque dipenda molto anche dal settore specifico in cui si lavora, probabilmente chi si occupa di modellare nuovi algoritmi avrà bisogno di conoscenze informatiche più solide. 

Dove lavori adesso e di cosa ti occupi esattamente ?

Attualmente sono assegnista di ricerca presso un Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e mi occupo di statistica genetica applicata a tratti complessi e patologie multifattoriali in isolati genetici. Ora mi trovo negli Stati Uniti presso la Johns Hopkins per un progetto di collaborazione con un gruppo di ricerca del National Institute of Health (NIH).

Quali sono, secondo te, al momento, le possibilità occupazionali in Italia e all'estero, per un Bioinformatica ?

Credo che le possibilità occupazionali in questo campo siano molte di più rispetto ad altri settori della Biologia anche se purtroppo penso sia più facile trovare opportunità all'estero piuttosto che in Italia. Tuttavia anche in questo caso dipende molto dal settore specifico in cui si lavora e da una buona dose di fortuna per cui è difficile generalizzare. Certamente ritengo che un Bioinformatico nel panorama lavorativo attuale abbia più chance di trovare lavoro rispetto a un Biologo che si occupa per esempio di test di laboratorio.
                    
Cosa ti sentiresti di suggerire a un collega Biologo/a che voglia intraprendere questa professione ?

A un collega Biologo consiglierei senz'altro di intraprendere la professione di Bioinformatico e soprattutto di fare un'esperienza all'estero magari proprio conseguendo fuori una specializzazione in Bioinformatica. Questo non solo arricchirebbe il curriculum vitae potenziando le opportunità di trovare lavoro ma permetterebbe sicuramente di conseguire una formazione all'avanguardia. Trattandosi inoltre di una materia molto vasta suggerirei di focalizzare su un percorso specifico in modo da poter indirizzare al meglio il percorso formativo necessario. ( di Mario Albano )

" LE INTOLLERANZE ALIMENTARI IN GELATERIA "



Il confine che delimita, da un punto di vista eziologico, sintomatico, diagnostico e persino normativo, le intolleranze dalle allergie alimentari, è spesso labile e poco definito. In linea di massima, possiamo dire che nell’allergia ad un determinato alimento, l’organismo reagisce all’ingestione dello stesso, con una risposta infiammatoria che spesso interessa diversi organi e che è mediata dal sistema immunitario. Nel caso delle intolleranze invece, di solito è interessato solo un organo o apparato, come ad esempio l’intestino tenue nella celiachia e non vi è mediazione da parte del sistema immunitario. Ciononostante, vi sono diverse scuole di pensiero che tendono a spostare dall’una o dall’altra parte della “barricata”, le diverse patologie. Nel caso della intolleranza al glutine, ad esempio, secondo la più recente definizione dell’ESPGHAN del 2012, (Hubsky et al, 2012) “la celiachia è un disordine sistemico immuno-mediato provocato dall’ingestione di glutine e/o prolammine simili, in individui geneticamente predisposti”. In molti casi, d’altra parte, l’intolleranza al glutine, è considerata un disordine circoscritto all’apparato gastrointestinale, ovvero all’intestino tenue anche se poi, i danni alla mucosa intestinale causati dall’intolleranza, che si riflettono in un malassorbimento di tutti i nutrienti, alla lunga finiscono per coinvolgere l’intero benessere psicofisico del soggetto con problemi secondari generalizzati e diffusi anche ad altri organi (dermatiti, patologie autoimmuni secondarie etc).

Il legislatore, nel normare da un punto di vista giuridico questo settore, si è focalizzato essenzialmente sulle “allergie alimentari”, tralasciando il tema delle intolleranze, fortunatamente con la dovuta eccezione proprio della celiachia che è stata, recentemente, riconosciuta, come malattia sociale ed è, in termini statistici, la più diffusa intolleranza alimentare a livello mondiale.

Lo spettro dello scibile in tema d’intolleranze alimentari in gelateria è quindi estremamente vasto e sarebbe impossibile trattarlo esaurientemente ma soprattutto in maniera precisa, completa e dettagliata in un solo articolo. Ci limiteremo, questa volta, a parlare solo delle intolleranze alimentari, focalizzandoci in particolar modo, soprattutto su quelle di maggiore interesse, sia per diffusione sociale che per maggiore attinenza in gelateria, ovvero l’intolleranza al glutine e l’intolleranza al lattosio, dando dei cenni introduttivi generali su cosa sono questi disturbi, la differenza con le allergie e la normativa di riferimento cogente, ovvero gli obblighi giuridici che il gelatiere ha, nel tutelare eventuali avventori che dovessero esserne affetti, rimandando ad un articolo successivo l’approfondimento sulle allergie e le altre forme d’intolleranza.


Differenza fra allergia e intolleranza alimentare

Secondo l’European Food Information Council (EUFIC), la reazione negativa al cibo è spesso erroneamente definita allergia alimentare. In molti casi è provocata da altre cause come un’intossicazione alimentare di tipo microbico o un’intolleranza ad un determinato ingrediente di un alimento”.  Nel definire quindi, che cosa sia una intolleranza alimentare è bene avere chiara la differenza fra quest’ultima e le allergie, solitamente ben più gravi, sia da un punto di vista sintomatico che per il tipo di riposta infiammatoria innescata. L’EUFIC infatti, prosegue dicendo: “L’allergia alimentare è una forma specifica di intolleranza ad alimenti o a componenti alimentari, che attiva il sistema immunitario. Un allergene ovvero una proteina presente nell’alimento a rischio che nella maggioranza delle persone è del tutto innocua, provoca, nel soggetto allergico, una catena di reazioni del sistema immunitario tra cui la produzione di anticorpi. Gli anticorpi determinano il rilascio di sostanze chimiche organiche, come l’istamina, che provocano vari sintomi: prurito, naso che cola, tosse o asma (Fig. 1)

    Fig. 1

Le allergie agli alimenti o ai componenti alimentari sono spesso ereditarie e vengono in genere diagnosticate nei primi anni di vita”.
Nell’allergia alimentare, quindi, la reazione dell’organismo, all’introduzione di un alimento, normalmente innocuo per la maggior parte delle persone, viene invece percepita, come una minaccia, attivando una serie di reazioni che coinvolgono il sistema immunitario. La reazione dell’organismo all’ingresso di questa “minaccia” ovvero di un allergene, stimola, la produzione di anticorpi, in pratica proteine che si legano ad altre proteine, ovvero agli allergeni, per poterli rendere innocui e quindi eliminarli. In questo complesso meccanismo, una particolare categoria di anticorpi che prende il nome di immunoglobuline E ( Ig E ),  reagisce con l’allergene scatenando una ulteriore reazione con i mastociti (cellule dei tessuti), i leucociti basofili e le piastrine (cellule del sangue) . I mastociti, detti anche mastocellule (dal tedesco mastzellen, "cellula infarcita"), di forma tondeggiante, localizzati al livello del tessuto connettivo, ovvero al di sotto del rivestimento epidermico di naso, gola, apparato respiratorio, occhi e intestino, a seguito del contatto diretto o indiretto con l’allergene, rilasciano una sostanza chiamata istamina o altre sostanze quali i leucotrieni e le prostaglandine, che provocano reazioni, come appunto l’asma, gli starnuti il prurito o l’arrossamento. Le reazioni negative sono immediate e di solito localizzate. Alcune reazioni allergiche impiegano varie ore o addirittura giorni a manifestarsi dopo l’esposizione ad una proteina estranea. In questo caso parliamo di "reazioni di ipersensibilità ritardata". Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, la reazione allergica è di forma lieve, alcune volte però, può essere molto seria ed in rari casi addirittura letale ( vedi shock anafilattico).
L’incidenza delle allergie alimentari nella popolazione, sulla base di diversi studi e trials clinici condotti in doppio cieco, ovvero alternando l’assunzione dell’allergene con un placebo (una sostanza somministrata al paziente come farmaco ma priva di principi attivi), è di circa l’1 - 2%. Apparentemente non sembra tanto, ma proviamo a pensare che in gelateria, ogni 100 persone che entrano, come minimo, una o due di queste soffrono di una qualche forma più o meno grave di allergia alimentare. Nel bambini piccoli e negli adolescenti, questa percentuale, fra l’altro, sale di diversi punti, fino a collocarsi in una media fra il 3 ed il 7%. Fortunatamente, molte di queste allergie alimentari, manifestatesi in età pediatrica, scompaiono o comunque si affievoliscono molto, nel corso dell’adolescenza.
Sebbene le allergie alimentari possano manifestarsi, praticamente con qualsiasi alimento, ne esistono alcuni per cui, le possibilità di scatenare una reazione allergica nei soggetti predisposti, sono maggiori. Fra i principali “allergeni alimentari” ricordiamo le uova, la frutta, le arachidi, la soia, il grano, il latte vaccino e vari tipi di noci e nocciole. In particolare le noci o le arachidi, sono note per essere causa, di reazioni allergiche particolarmente gravi, fino allo shock anafilattico.



Dopo aver chiarito che cosa sia un’allergia alimentare e i suoi meccanismi, possiamo dire che nel caso delle intolleranze alimentari invece, la reazione infiammatoria dell’organismo all’allergene, non è mediata dal sistema immunitario. La diffusione nella popolazione inoltre è solitamente molto maggiore. Da un punto di vista storico-statistico, infatti, un significativo aumento delle intolleranze alimentari, si è avuto a partire dal 1940, quando le abitudini alimentari, degli italiani,  sono cominciate a cambiare. L’introduzione degli alimenti da industria alimentare e l’utilizzo di additivi quali conservanti, coloranti, antiossidanti, ha sensibilmente incrementato le intolleranze, che permangono maggiormente presenti nei paesi più industrializzati, rispetto ai paesi in via di sviluppo. Al giorni d’oggi, in termini probabilistici, qualunque cliente entri in gelateria, potrebbe essere più o meno intollerante ad un qualche ingrediente presente nel gelato. In realtà va precisato che il gelato è un alimento particolarmente a rischio allergeni, proprio perché preparato con uova, latte, frutta secca o a guscio (sostanze inserite nella legge 114/2006). Il rischio contaminazione, ad esempio per il celiaco, potrebbe derivare non solo dalle materie prime ma dalla presenza in tracce, di glutine in alcuni stabilizzanti utilizzati nella produzione, oppure nell’utilizzo di latte in polvere o dei comuni semilavorati in gelateria. Spesso infatti, quando guardiamo la lista ingredienti di un gelato, ci focalizziamo sulle uova, il latte, la frutta. Tutti ingredienti, privi di glutine ma ci dimentichiamo della possibile di contaminazione in tracce, derivante non dalle materie prime ma bensì dagli additivi o da passaggi nella produzione di determinati ingredienti.  



Nella seguente tabella riassuntiva vengono elencate le diverse tipologie di prodotti di possibile utilizzo in gelateria e la loro idoneità per il consumatore celiaco.


Fra le diverse intolleranze,  le due più frequenti, oltre che per incidenza, anche per ordine d’importanza, sono proprio l’intolleranza al glutine e quella al lattosio. Fra l’altro entrambe sono di rilievo per il gelatiere, proprio perché coinvolgono due fra gli ingredienti, maggiormente utilizzati nella produzione del gelato e dei supporti (coni, cialde etc.).

Intolleranza alimentare al lattosio


A norma di legge per “latte alimentare” deve intendersi (art. 15 r.d. 994/9 maggio 1929) “il prodotto ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa, della mammella di animali in buono stato di salute e di nutrizione”. Con il termine latte si intende quello prodotto dalla vacca, ovvero il cosiddetto “latte vaccino” mentre quello proveniente da altri animali porta la denominazione della specie animale che lo produce. Come ogni altro tipo di latte, anche quello vaccino, comunemente utilizzato nella produzione gelatiera è una miscela complessa di componenti di varia natura, presenti sia allo stato di soluzione vera (sali, vitamine idrosolubili, sostanze azotate non proteiche, zuccheri), sia allo stato colloidale (proteine e parte dei fosfati e citrati di calcio) sia allo stato di fine emulsione (lipidi e vitamine liposolubili).  Il latte di vacca, è mediamente composto dal 3,3 – 4% di grassi, 2,8 – 3,3% di proteine, 4,8 – 5% di carboidrati, 0,6 – 0,8% di Sali minerali, e la restante parte 86,9% - 88,5% di acqua (Fig. 2). L’intolleranza alimentare al lattosio, riguarda proprio quel 4,8-5% di carboidrati, ovvero di zuccheri ingeriti e vediamo come questo avviene.


    Fig. 2
 
Il lattosio rappresenta la quasi totalità degli zuccheri presenti nel latte vaccino, con una percentuale del 98% sul quantitativo complessivo di carboidrati. Si tratta di un carboidrato semplice disaccaride, costituito da due monosaccaridi ( Glucosio e Galattosio).  L’indice glicemico del lattosio, ovvero la velocità con cui esso è assimilato dall’organismo umano è pari a (46) ed è circa la metà dell’indice glicemico del glucosio (100). 
Riguardo al consumo di latte in età adulta, va fatta una precisazione doverosa. Tutti i mammiferi ad eccezione dell’uomo, una volta terminato lo svezzamento, cessano di consumare latte. Anche perché le ghiandole mammarie, della madre, smettono di produrne. L’uomo fa eccezione a questa regola, continuando a consumare latte, anche in età adulta, seppur di specie diversa. Secondo molti Biologi, l’introduzione del latte extra-specie, ovvero di una specie diversa, nell’alimentazione umana, è un fatto cronologicamente piuttosto recente e risalirebbe ad una mutazione genetica, avvenuta non più di 7000 anni fa. In pratica, qualche migliaio di anni addietro ci sarebbe stata una mutazione genetica che avrebbe consentito la digestione del latte anche in età adulta, cosa che prima non era possibile.
Una volta ingerito il latte, infatti, affinché il lattosio venga scisso nei due zuccheri semplici (glucosio e galattosio) e quindi possa essere immesso in circolo per essere poi assorbito, è necessario un enzima presente a livello dell’intestino tenue, detto lattasi. La mutazione genetica che avrebbe consentito la persistenza della lattasi, anche in età adulta, non sarebbe diffusa omogeneamente fra la popolazione e ciò spiegherebbe la ragione per cui esistono individui privi di lattasi in età adulta, ovvero incapacitati a digerire il lattosio, mentre altri no. In pratica, mentre nella persona “non intollerante”, il lattosio viene scomposto a livello dell’intestino tenue, dalla lattasi, in glucosio e galattosio, che entrano subito in circolo ematico, nei soggetti intolleranti al lattosio, dove l’attività enzimatica della lattasi è ridotta o in alcuni casi assente, il lattosio prosegue il suo percorso intestinale fino all’intestino crasso, dove subisce una fermentazione ad opera della microflora intestinale locale. Questo comporta sintomi come gonfiori crampi addominali, flatulenza o diarrea.
Secondo alcuni studi, circa il 70% della popolazione mondiale, soffrirebbe di una più o meno ridotta attività dell’enzima lattasi. In Europa, sarebbe invece il 5% della popolazione a manifestare carenza di lattasi, con significative variazioni in base al paese ed al ceppo di origine. Numeri che, fra l’altro, sono in aumento nel vecchio continente, ma non solo. Appare evidente, quindi, che il gelatiere artigianale, dovrà prestare particolare attenzione al fatto che molti dei suoi clienti, potrebbero essere intolleranti al lattosio. Anche in questo caso, una offerta parallela alla tradizionale produzione di gelato, che tenga conto delle necessità, di questo tipo di clientela, può essere un buon modo per differenziarsi dalla concorrenza e ritagliarsi una posizione di nicchia, nel mercato del gelato della propria zona. 

Intolleranza al lattosio: “legislazione e obblighi”
Dal 13 Dicembre 2014, al termine dei tre anni di periodo transitorio dato dal legislatore per adeguarsi, diventerà legge, ovvero “norma cogente”, il Regolamento Europeo 1169/2011 (in vigore dal 2011) che obbliga chiunque tratti alimenti, a produrre un’etichetta completa, chiara e dettagliata che includa l’indicazione degli allergeni.
Fermo restando che, come abbiamo sottolineato in precedenza, quasi tutti gli ingredienti possono dare, nei soggetti predisposti, intolleranze ma che solo alcuni ingredienti possono dare allergie alimentari, la comunità europea, con la direttiva allergeni Dir. 2000/13/CE e successive modifiche ( quali  Direttiva 2001/101/CE, Direttiva2002/67/CE, Direttiva 2003/89/CE, Direttiva 2006/107/CE, Direttiva 2006/142/CE, Regolamento (CE) n. 1332/2008, Regolamento (CE) n. 596/2009 ), ha imposto l’obbligo di indicare, sulle etichette dei prodotti sfusi, ogni sostanza che appartenga all’elenco (Fig. 3) dei potenziali allergeni (così come riportato nell’allegato III del Dlgs n. 114 dell’8 febbraio 2006, in attuazione delle direttive 2003/89/CE, 2004/77/CE e 2005/63/CE in materia di indicazione degli ingredienti contenuti nei prodotti alimentari - GU n.69 del 23-3-2006 - entrato in vigore il 7/4/2006 ), al fine di assicurare un’informazione adeguata e raggiungere un elevato livello di tutela della salute dei consumatori. 



Di fatto, secondo il Regolamento Europeo 1169/2011, la redazione di un etichetta alimentare dovrà essere basata su criteri di assoluta trasparenza ai fini della salvaguardia della salute dei consumatori. L’obbligo sarà quindi, non solo per il prodotto confezionato, ma anche per la vendita sfusa (gelaterie, pasticcerie ecc.). Il cliente dovrà sempre avere a disposizione il libro-giornale degli ingredienti, conoscerne l’origine e le indicazioni allergeniche.
Ricordiamo infine, a riguardo soprattutto della prevenzione del rischio intolleranza al lattosio e quindi in merito alla corretta informazione al cliente, di esporre nella gelateria, il “Cartello Unico”, (Fig. 4) degli ingredienti. Lo schema di cartello unico degli ingredienti che rientra negli strumenti previsti dalla normativa europea (Regolamento Europeo 1169/2011) e nazionale (D.lgs. 109/1992) sulla etichettatura e la pubblicità dei prodotti alimentari a tutela del consumatore, dovrà essere esposto ben visibile al pubblico in tutti gli esercizi in cui si vendono per asporto prodotti di gelateria, pasticceria, panetteria e gastronomia. A partire dal 13 dicembre 2016, , sempre in base al Regolamento Europeo 1169/2011, vigerà l’obbligo, per i produttori, di redigere anche “una  dichiarazione nutrizionale”.


    Fig. 4




 Intolleranza alimentare al glutine (Celiachia)

 
Il termine "celiaco" deriva dal greco koiliakós, "addominale", ed è un vocabolo introdotto nel 1800, grazie alla traduzione di un testo medico antico, redatto nel primo secolo d.c. da parte del medico Areteo di Cappadocia, il quale la denominò “diatesi celiaca”, ovvero  “alterazione intestinale”.

Secondo alcuni studiosi, le origini storiche della malattia celiaca risalirebbero a circa 10.000 anni fa quando fu introdotta la coltivazione dei cereali nella zona della cosiddetta “Mezza Luna Fertile” (Siria, Israele, Iran, Iraq). In seguito, tale coltivazione si estese in tutta Europa, diffondendo, di conseguenza, la malattia in tutto l’occidente. Storicamente, la celiachia era molto meno diffusa di adesso ed in molti si sono chiesti il perché dell’incremento della diffusione di questo disturbo. Una chiave di lettura la da certamente la genetica, ma non può essere considerata la sola responsabile. Certamente la predisposizione genetica ha la sua importanza, come fra l’altro è stato dimostrato dall’individuazione di alcuni geni coinvolti, sul cromosoma 6 (Sollid et al, 2005; Louka et al, 2003; Trynka et al, 2010; Bourgey et al, 2007; Margaritte et al, 2004), ma pare che anche l’ambiente abbia giocato e giochi un ruolo importante nello sviluppo della malattia. Il prolungato allattamento al seno, fino ai quattro anni, nell’antichità e fino a un anno di età, agli inizi del secolo scorso, costituiva, ad esempio, un fattore protettivo, dovuto probabilmente alle difese immunitarie trasmesse dalla madre al piccolo attraverso il latte, e che oggi è andato perso. L’elevata mortalità infantile dei bambini, intolleranti al glutine, inoltre, non consentiva il diffondersi della predisposizione genetica. Non bisogna inoltre dimenticare che secoli addietro i cereali, venivano assunti, solo a seguito di lunghe fermentazioni acide oppure di prolungate cotture, che inattivavano in maniera totale o parziale l'attività tossica, o almeno quella allergenica del glutine. Oggi, la nostra alimentazione è completamente cambiata rispetto al passato. Il diffondersi di molti prodotti a base di grano duro, ricchi di glutine ed una cottura spesso insufficiente, hanno contribuito al diffondersi dell’intolleranza.

L’Associazione Italiana Celiachia (AIC), attualmente la principale organizzazione indipendente italiana che si occupa d’intolleranza al glutine e della tutela delle persone affette, in un recente studio, ha stimato che l‟incidenza della Celiachia nella popolazione è di un caso ogni 100/150 individui. I celiaci italiani, sarebbero quindi, fra le 400.000 e le 600.000 unità. Un numero considerevole ed in costante aumento, sebbene, per molti epidemiologi, sottostimato. Il Professor Richard Logan, ebbe a dichiarare, nel 1992, che “la celiachia è come un iceberg, la cui punta è costituita dai soggetti diagnosticati ed il sommerso da quelli non riconosciuti”.
Ma che cos’è esattamente la celiachia ?
Meglio definita come “intolleranza al glutine”, la celiachia in realtà è una intolleranza ad alcuni tipi di proteine di cui il glutine è costituito, ovvero le “prolammine”. Tali proteine, contenute in alcuni cereali, per ingestione indurrebbero in individui geneticamente predisposti, il morbo celiaco. Il glutine (dal latino gluten = colla), è una proteina che si origina dall'unione, in presenza di acqua ed energia meccanica, di due tipi di proteine: la gliadina e la glutenina, prolammine presenti principalmente nell'endosperma delle cariosside di cereali quali frumento, farro, segale, avena e orzo. I celiaci, a seguito d’ingestione di quantitativi anche minimi di prolammine, sviluppano dei danni più o meno marcati alla mucosa dell’intestino tenue (Fig. 5)



L’alterazione morfologico-funzionale della parete del lume intestinale, comporta una sintomatologia immediata come gonfiore addominale, crampi, diarrea, ma a causa dell’alterazione nell’assorbimento dei principali nutrienti, può portare nel tempo, a patologie autoimmuni, quali ileite ulcerativa, dermatite erpetiforme o addirittura a neoplasie dell’intestino tenue. Attualmente si stima che l’80% degli ammalati di celiachia non ne sia consapevole.
Nel soggetto intollerante, una volta ingerito un qualunque alimento contenente glutine ed una volta che il “bolo alimentare” raggiunge il primo tratto intestinale, ovvero quello dell’intestino tenue, le pareti di rivestimento di quest’ultimo si danneggiano, precludendo le normali funzioni di assorbimento dei nutrienti essenziali quali grassi, proteine e carboidrati. I sintomi includono astenia (debolezza), crampi e dolori addominali, diarrea e perdita di peso. L’esclusione di alimenti contenenti glutine, gradualmente porta alla remissione dei sintomi ed all’autoriparazione dei danni intestinali.
L’intolleranza al glutine può comparire sia nel bambino che nell’adulto a qualunque età. Solitamente la celiachia nel bambino, compare dopo lo svezzamento a distanza di un mese dalla prima introduzione del glutine. La sintomatologia nella maggior parte dei casi, evidenzia un quadro clinico caratterizzato da diarrea, vomito, anoressia, irritabilità, arresto della crescita o calo ponderale. Nell’adulto invece, la celiachia può comparire a qualsiasi età, solitamente a seguito di un forte stress o di una infezione intestinale


Intolleranza al glutine: “legislazione e obblighi”
Come già ricordato per l’intolleranza al lattosio, così come per qualunque altra eventuale e potenziale intolleranza in gelateria, la normativa principale a cui bisogna fare riferimento è il D.lgs. 109/1992  e soprattutto il nuovo Regolamento Europeo 1169/2011 che obbliga chiunque tratti alimenti, a produrre un’etichetta completa, chiara e dettagliata che includa l’indicazione degli allergeni a margine di ciascun ingrediente o per diversa sua fonte. Il testo attuale del regolamento (UE) n. 1169/11, d‘altra parte, non sembra lasciare molto spazio al buon senso. Viene infatti prescritto di ripetere la presenza di ingredienti allergenici, pur già segnalati, in relazione a ogni loro specifica fonte: ingredienti, additivi, coadiuvanti o altro.
Nel caso della celiachia, è importante quindi, per il gelatiere, garantire la corretta comunicazione degli ingredienti presenti nel gelato ed in tutti quei composti ove è presente glutine, anche in tracce. Ogni prodotto deve essere accompagnato da relativa composizione che può essere riportata in un cartello vicino ad ogni singola preparazione, nei pressi della vetrina espositiva, con il cartello unico ben visibile o con qualunque altro metodo che permetta un facile ed intuitivo collegamento tra singolo prodotto ed indicazione dei rispettivi ingredienti ed eventuali allergeni, come il glutine nel caso specifico.


La preparazione di un gelato privo di glutine, ad ogni modo, presuppone un’attenzione e spesso, laddove possibile, una suddivisione delle linee produttive, che non si può improvvisare. Tutte le fasi di produzione di un gelato privo di glutine, dovranno essere perfettamente separate da quella del gelato tradizionale, a partire dall’approvvigionamento delle materie prime, al trasporto che dovrà garantire contenitori a chiusura ermetica perfetta, allo stoccaggio, alla produzione sino ad arrivare agli utensili adoperati nella fase di somministro. In quei casi in cui, per diverse ragioni non sarà possibile differenziare le due linee produttive, esse dovranno essere diversificate nel tempo e i processi di pulizia e sanificazione dei macchinari e degli utensili, rigorosi controllati ed inclusi come punti critici CP, nel piano di autocontrollo, proprio per evitare qualunque contaminazione crociata in tracce, di glutine.

A tal proposito ricordiamo che l’AIC (Associazione Italiana Celiachia) ha varato un progetto interessante e già attivo, che mira a creare un network di gelaterie informate e sensibilizzate, sulle modalità di preparazione e somministrazione del gelato privo glutine. In suddette gelaterie che espongono un logo (Fig. 6), il personale ha seguito corsi appositi, tenuti da personale qualificato AIC, sui requisiti e le modalità di preparazione di un gelato sicuro e privo di glutine. 
( di Mario Albano )