sabato 6 ottobre 2018

BIOLOGIA MARINA:" INTERVISTA A MARTINA RIGHETTI "


 

BIOLOGIA MARINA
“ INTERVISTA A MARTINA RIGHETTI ”
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La figura professionale del Biologo Marino è forse la più amata ed ambita, fra le diverse specializzazioni post laurea, che un Biologo possa intraprendere. La possibilità di lavorare a contatto con il mare, spesso in contesti internazionali, è una prospettiva che attrae un numero crescente di giovani. Martina Righetti, Biologa, seppur giovanissima, sembra avere le idee molto chiare sul suo futuro professionale ed in questa intervista, ci racconta la sua storia e le sue aspettative di vita e di lavoro.



Ciao Martina. Qual è attualmente, il percorso di studi ideale, per diventare Biologi Marini ?

Ciao! Io mi sono iscritta all’Università Politecnica delle Marche, dove è possibile intraprendere un percorso di studi della durata di 3 anni in scienze biologiche per poi specializzarsi in biologia marina, grazie ad una laurea magistrale della durata di 2 anni. A mio avviso, la facoltà di Ancona è molto valida, per diventare biologi marini. Personalmente, posso dire di avere avuto l’onore di ricevere insegnamenti da professori di notevole spessore, sia nazionale che internazionale. Nel percorso di studi, oltre alle normali lezioni, sono previsti, fra l’altro, diversi laboratori pratici e seminari, che sono stati per me spunto di approfondimenti molto utili e interessanti.


Come nasce la tua passione per la Biologia Marina ? Raccontaci un po’ di te
La passione per la biologia marina mi accompagna sin da bambina. Già allora ero innamorata di delfini e balene e il mio gioco preferito, a dieci anni, era indovinare le specie di cetacei dalle fotografie. Sentivo che erano tutto il mio mondo e da lì, la passione si allargò al campo marino in generale; ora posso dire che vivo per questo e non riesco a immaginare una vita diversa e più bella. Ho avuto, inoltre, la fortuna di avere una famiglia che ha sempre appoggiato questo mio amore. A sedici anni, feci i primi volontariati per il soccorso di delfini spiaggiati e per il monitoraggio di delfine incinta in ambiente controllato. Presto arrivò il primo brevetto subacqueo e i primi viaggi per il monitoraggio di delfini in libertà. Il desiderio di iscriversi in una facoltà di biologia marina era così grande che non vedevo l’ora di finire il liceo.

A tuo parere quali sono le caratteristiche e gli “skills”, che un aspirante Biologo Marino dovrebbe avere ?
Dico sempre che per fare questo lavoro bisogna essere degli spiriti liberi, non bisogna solo avere voglia di viaggiare e di mettersi in gioco, bisogna sentirlo dentro, è un bisogno che diventa una seconda pelle. Un vero biologo marino è una persona che non riesce a stare troppo tempo nello stesso posto, ha bisogno di viaggiare e di conoscere ogni angolo di questo grande oceano meraviglioso che ci circonda…e con questo, non intendo solo posti come Maldive o Caraibi. Quando ami il mare, anche l’angolo più remoto del pianeta è fonte di curiosità e conoscenza. Un vero biologo marino deve mettere in conto che la propria vita non sarà mai routine. Bisogna avere voglia di conoscere e scoprire, sempre. Avere un grande spirito di adattabilità, avere il grande amore di vivere a contatto con la natura, il più delle volte senza i comfort che la vita di oggi ci offre. Ma il bello di questo lavoro, a mio parere, è proprio questo.


  
So che in qualità di Biologa Marina, hai già avuto un’esperienza lavorativa all’estero. Vuoi parlarcene ?
Attualmente, sto completando il mio ultimo anno di percorso magistrale, ma durante i miei anni di studio ho avuto l’opportunità di fare la mia prima, vera, esperienza lavorativa all’estero. Ho lavorato sei mesi in Mar Rosso, a Berenice, in un resort, come biologa marina turistica. Il mio compito era di tipo divulgativo, organizzavo delle uscite di snorkeling  e gite in barca per gli ospiti della struttura, spiegando ciò che si poteva incontrare, come coralli e pesci del reef; inoltre tre sere a settimana, facevo delle lezioni di biologia marina e durante il giorno, anche passeggiate naturalistiche nella vicina foresta di mangrovie. La cosa più bella che questa esperienza mi ha regalato è stata quella di trasmettere la mia passione a chi, magari, si avvicinava a questo mondo per la prima volta. Vedere lo stupore delle persone, grandi e piccini, la voglia di imparare, di capire ciò che stavano vedendo, per me era fonte di grande gioia. Senz’altro un input e una conferma che il mare sarebbe stato per sempre la mia vita, il tutto poi confermato dai giudizi positivi degli ospiti. Non c’è stato giorno in cui questo lavoro sia stato un peso. Spesso facevo più di quel che dovevo, proprio perché era semplicemente un piacere. E’ stato meraviglioso toccare con mano ciò che si studia per anni sui libri, vedere certi fenomeni della natura che prima potevi solo immaginare. Adesso sono ritornata in Italia per completare gli studi, ma appena potrò, penso proprio di fare i bagagli e ripartire. 




Secondo te quali sono le prospettive lavorative per questa professione, in Italia ? Quali le prospettive all’estero ?
In Italia, purtroppo, gli orizzonti non sono così rosei. Questo è un peccato, perché abbiamo un mare bellissimo di cui conosciamo veramente poco e le risorse che si investono per la ricerca in questo settore, sono davvero ridotte. Penso inoltre che la biologia marina, in Italia, venga vista, ancora come un campo “nuovo” e poco esplorato. La mia impressione è che all’estero sembrano aver compreso, prima di noi, che il mare è un bene prezioso per tutto il Pianeta e come tale andrebbe tutelato. Basti pensare, ad esempio, all’importante ruolo che esso ricopre nei cambiamenti climatici. Conoscerlo e preservarlo è un compito fondamentale di tutta l’umanità. In definitiva credo che le prospettive all’estero siano molte di più, sia in ambito ricerca che divulgativo.

Cosa pensi di fare una volta conseguita la laurea specialistica. 
Hai già dei progetti ?
Credo che una delle ambizioni più grandi che un biologo marino possa avere, sia quella di rimanere in ambito universitario dopo la laurea e quindi fare ricerca. Non è così facile purtroppo, soprattutto in Italia. Un mio sogno sarebbe quello di fare, magari, un master post-laurea all’estero, oppure continuare a fare qualche esperienza di tipo divulgativo, magari lavorando in un diving center. Trasmettere la mia passione è una cosa che ho scoperto, piacermi tantissimo. In futuro mi piacerebbe molto aprire un mio Ecolodge magari in Madagascar, terra che amo molto. Un posto dove possa alloggiare chi veramente voglia dedicare completamente il proprio tempo al mare e desideri trascorrere un viaggio all’insegna della scoperta e del rispetto per la natura. Sono convinta che il rispetto per il nostro mondo nasca proprio dalla conoscenza, e il dovere principale di noi biologi in quanto scienziati è quello di informare, divulgare e far conoscere.
 

ARRIVI TURISTICI:" IN SOLI VENTI ANNI LA SPAGNA HA GUADAGNATO QUASI TRENTA MILIONI DI ARRIVI TURISTICI IN PIU' RISPETTO ALL' ITALIA "




Quando si parla d'Italia nel mondo, normalmente il pensiero corre al buon cibo, alla sua storia, all'arte, alla cultura, al Papa e al Vaticano, a Roma, Venezia, Firenze, al bel clima, al mare, alle sue spiagge e alle sue coste meravigliose, al maggior numero di siti Unesco. Da una simile ricchezza e direi fortuna, ci si aspetterebbe di essere il primo paese al mondo per numero di arrivi turistici. Per raggiungere tale obbiettivo infatti, non sarebbe stato necessario un Manager straordinario, bensì semplicemente un Manager mediocre, che però avesse perseguito il bene dell'Italia. Invece no.

Secondo una classifica stilata dall'Organizzazione Mondiale del Turismo, in seno alle Nazioni Unite, consultabile a questo sito https://en.wikipedia.org/wiki/World_Tourism_rankings l'Italia, ferma al quinto posto con 58.300.000 arrivi turistici nel 2017 è stata distaccata di oltre venti milioni di arrivi, sia dalla Spagna 81.800.000 arrivi, che dalla Francia 86.900.000.

Bisogna sottolineare che questo, non è un semplice esercizio di comodo, teorico, fine a se stesso. Secondo il World Economic Forum, per l'Italia, colmare il gap, ad esempio, con la Spagna, equivarrebbe a guadagnare oltre due punti di pil https://www.repubblica.it/economia/2018/04/22/news/spagna-italia_dal_turismo_gli_iberici_guadagnano_40_miliardi_in_piu_-194539494/

D'altra parte, il sorpasso turistico della Spagna sull'Italia è coinciso con il sorpasso degli spagnoli, sul nostro Pil pro-capite https://www.eleconomista.es/economia/noticias/9085006/04/18/Economia-Espana-supero-a-Italia-en-riqueza-por-habitante-en-2017-segun-el-FMI.html . Nel 2017, infatti, il Fondo Monetario Internazionale ( acronimo FMI), ha attribuito, per la prima volta nella storia contemporanea, un PIL pro-capite agli spagnoli di 38.285,966, superiore a quello italiano fermo a quota 38.140,338 dollari, peraltro fortemente sbilanciato in termini distributivi. Nello stesso anno solare inoltre, la Spagna ha incassato con il turismo, ben 87 miliardi, a fronte dei 40 miliardi italiani.

Ridicolo il siparietto dell'ex ministro per l'economia Padoan, quello che non sapeva quanto costava un litro di latte per intenderci, quando raggiunto dagli sconfortanti dati sul turismo italiano, comunicati dal FMI, mentre era in conferenza congiunta proprio con la presidente Christine Lagarde http://www.lastampa.it/2018/04/21/economia/crescita-turismo-e-agroalimentare-cos-la-spagna-sorpassa-litalia-GrMh51UiHnZtdfQUKHK4SP/pagina.html , ebbe il fegato di dire : «La strategia attuata dal governo è stata corretta». Immaginatevi se fosse stata sbagliata.

Deprimenti i dati sulla perdita di turisti tedeschi:" Negli ultimi venti anni l'Italia ha perso 35 milioni di pernottamenti di turisti provenienti dalla Germania https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/09/21/turismo-italia-spagna-partita/ ". Nello stesso articolo de Il Sole 24 Ore, viene tracciato, inoltre, un interessante quadro analitico, sul perché l'Italia sia stata sorpassata in maniera così brutale dalla Spagna, in termini turistici. Il resoconto, sostanzialmente, attribuirebbe il gap ad una mancata percezione, da parte della classe dirigente italiana, dell'importanza del turismo, nella crescita dell'economia.

Sempre nell'articolo del quotidiano economico, si legge infatti: 

" Negli anni 50/60 la Spagna intuì che il turismo sarebbe stato fondamentale per uscire dall’isolamento causato dalla guerra. Manuel Fraga Iribarne, ministro dell’Informazione e del Turismo dal 1962 al 1969, fu una figura fondamentale in questo processo. Durante il suo mandato fu lanciata la prima di tante campagne di successo. Lo slogan “Spain is different “ puntava a mostrare al mondo un paese con molte facce ancora sconosciute. A lui si deve anche l’espansione della catena dei Paradores e molte altre iniziative per il successo del Turismo e di quello che possiamo chiamare Sistema dell’Accoglienza in Spagna.
«Se la Spagna nel 1951 accoglieva 1,3 milioni di stranieri, nel 1965 ne riceveva 14,3 milioni, e nel 1990 34 milioni» Storia del Turismo in Italia, A. Berrino.
La Spagna ha fatto dello sviluppo di località costiere ed isole la sua fortuna nell’onda del Turismo delle “4 S’ (Sun, Sea, Sand and Sex). Non a caso una campagna di successo negli anni 80 recitava Everything under the Sun. 

Ciò che il quotidiano economico nazionale non dice nella sua interessante analisi e che non troverete in nessun quotidiano o mass-media mainstream è che il gap in termini di arrivi turistici, fra la Spagna e l'Italia non viene da lontano, ma si è generato negli ultimi venti anni, ovvero durante i governi della Seconda Repubblica.

La Banca dati Mondiale sul Turismo infatti, parla chiaro:

" Nel 1995 il numero di arrivi turistici in Spagna era pari a 32.971.000 presenze ".

" Nel 1995 il numero di arrivi turisti in Italia era pari a 31.052.000 presenze " .

Sostanzialmente, quindi, al 1995, le presenze turistiche fra l'Italia e la Spagna, ancora si equivalevano. Ergo il gap, fra i due paesi, si è generato nei venti anni successivi.

I dati sono consultabili qui ( in Spagnolo):  https://datos.bancomundial.org/indicador/ST.INT.ARVL?locations=ES-IT

Inutile girarci intorno, i danni causati al nostro paese, dall'establishment che ha governato l'Italia dai primi anni novanta ( periodo d'inizio delle privatizzazioni fra l'altro) ad oggi, sono stati enormi.

* A questo link è consultabile lo storico dei Governi susseguitisi in Italia, dal dopoguerra ad oggi http://www.governo.it/i-governi-dal-1943-ad-oggi/i-governi-nelle-legislature/192



giovedì 4 ottobre 2018

" INTERVISTA A LAURA PORTAS, BIOLOGA E BIONFORMATICA "

Risultati immagini per LAURA PORTAS BIOLOGA


Ciao Laura. La Bioinformatica è una disciplina relativamente nuova che sta interessando un numero crescente di giovani. Qual è stato il tuo approccio a essa e con quale percorso di studi ci sei arrivata ?

Dopo aver conseguito la laurea in Biologia, ho frequentato un Master in Tecnologie Bioinformatiche applicate alla Medicina Personalizzata che prevedeva al termine del corso di studio uno stage in azienda per l'elaborazione della tesi finale. Ciò mi ha consentito di entrare nel mondo del lavoro e di mettere in pratica tutte le nozioni apprese durante il mio corso di studi. Il Master comprendeva diverse materie che spaziavano dalla proteomica alla farmacogenomica e mi ha fornito delle nozioni di base su diversi aspetti riguardanti il vasto mondo della Bioinformatica. Al termine del periodo di stage l'azienda mi ha proposto di continuare il mio lavoro con un contratto di collaborazione e da lì è iniziata la mia avventura in questo settore.

Spesso si sente dire che per essere un bravo Bioinformatico serve un background formativo in Informatica e dopo bisogna acquisire le conoscenze di tipo biologico. Altri sostengono il contrario. Meglio studiare prima Biologia e dopo specializzarsi in Bioinformatica. Alla luce della tua esperienza qual è il percorso più adatto ?

Alla luce della mia esperienza posso dire che ritengo fondamentale un background biologico per poter essere un bravo Bioinformatico perché penso sia necessario conoscere i complessi meccanismi biologici che si studiano al fine di poter utilizzare i modelli statistici più adeguati e di poter interpretare i risultati ottenuti. Ritengo che comunque dipenda molto anche dal settore specifico in cui si lavora, probabilmente chi si occupa di modellare nuovi algoritmi avrà bisogno di conoscenze informatiche più solide. 

Dove lavori adesso e di cosa ti occupi esattamente ?

Attualmente sono assegnista di ricerca presso un Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e mi occupo di statistica genetica applicata a tratti complessi e patologie multifattoriali in isolati genetici. Ora mi trovo negli Stati Uniti presso la Johns Hopkins per un progetto di collaborazione con un gruppo di ricerca del National Institute of Health (NIH).

Quali sono, secondo te, al momento, le possibilità occupazionali in Italia e all'estero, per un Bioinformatica ?

Credo che le possibilità occupazionali in questo campo siano molte di più rispetto ad altri settori della Biologia anche se purtroppo penso sia più facile trovare opportunità all'estero piuttosto che in Italia. Tuttavia anche in questo caso dipende molto dal settore specifico in cui si lavora e da una buona dose di fortuna per cui è difficile generalizzare. Certamente ritengo che un Bioinformatico nel panorama lavorativo attuale abbia più chance di trovare lavoro rispetto a un Biologo che si occupa per esempio di test di laboratorio.
                    
Cosa ti sentiresti di suggerire a un collega Biologo/a che voglia intraprendere questa professione ?

A un collega Biologo consiglierei senz'altro di intraprendere la professione di Bioinformatico e soprattutto di fare un'esperienza all'estero magari proprio conseguendo fuori una specializzazione in Bioinformatica. Questo non solo arricchirebbe il curriculum vitae potenziando le opportunità di trovare lavoro ma permetterebbe sicuramente di conseguire una formazione all'avanguardia. Trattandosi inoltre di una materia molto vasta suggerirei di focalizzare su un percorso specifico in modo da poter indirizzare al meglio il percorso formativo necessario. ( di Mario Albano )

" LE INTOLLERANZE ALIMENTARI IN GELATERIA "



Il confine che delimita, da un punto di vista eziologico, sintomatico, diagnostico e persino normativo, le intolleranze dalle allergie alimentari, è spesso labile e poco definito. In linea di massima, possiamo dire che nell’allergia ad un determinato alimento, l’organismo reagisce all’ingestione dello stesso, con una risposta infiammatoria che spesso interessa diversi organi e che è mediata dal sistema immunitario. Nel caso delle intolleranze invece, di solito è interessato solo un organo o apparato, come ad esempio l’intestino tenue nella celiachia e non vi è mediazione da parte del sistema immunitario. Ciononostante, vi sono diverse scuole di pensiero che tendono a spostare dall’una o dall’altra parte della “barricata”, le diverse patologie. Nel caso della intolleranza al glutine, ad esempio, secondo la più recente definizione dell’ESPGHAN del 2012, (Hubsky et al, 2012) “la celiachia è un disordine sistemico immuno-mediato provocato dall’ingestione di glutine e/o prolammine simili, in individui geneticamente predisposti”. In molti casi, d’altra parte, l’intolleranza al glutine, è considerata un disordine circoscritto all’apparato gastrointestinale, ovvero all’intestino tenue anche se poi, i danni alla mucosa intestinale causati dall’intolleranza, che si riflettono in un malassorbimento di tutti i nutrienti, alla lunga finiscono per coinvolgere l’intero benessere psicofisico del soggetto con problemi secondari generalizzati e diffusi anche ad altri organi (dermatiti, patologie autoimmuni secondarie etc).

Il legislatore, nel normare da un punto di vista giuridico questo settore, si è focalizzato essenzialmente sulle “allergie alimentari”, tralasciando il tema delle intolleranze, fortunatamente con la dovuta eccezione proprio della celiachia che è stata, recentemente, riconosciuta, come malattia sociale ed è, in termini statistici, la più diffusa intolleranza alimentare a livello mondiale.

Lo spettro dello scibile in tema d’intolleranze alimentari in gelateria è quindi estremamente vasto e sarebbe impossibile trattarlo esaurientemente ma soprattutto in maniera precisa, completa e dettagliata in un solo articolo. Ci limiteremo, questa volta, a parlare solo delle intolleranze alimentari, focalizzandoci in particolar modo, soprattutto su quelle di maggiore interesse, sia per diffusione sociale che per maggiore attinenza in gelateria, ovvero l’intolleranza al glutine e l’intolleranza al lattosio, dando dei cenni introduttivi generali su cosa sono questi disturbi, la differenza con le allergie e la normativa di riferimento cogente, ovvero gli obblighi giuridici che il gelatiere ha, nel tutelare eventuali avventori che dovessero esserne affetti, rimandando ad un articolo successivo l’approfondimento sulle allergie e le altre forme d’intolleranza.


Differenza fra allergia e intolleranza alimentare

Secondo l’European Food Information Council (EUFIC), la reazione negativa al cibo è spesso erroneamente definita allergia alimentare. In molti casi è provocata da altre cause come un’intossicazione alimentare di tipo microbico o un’intolleranza ad un determinato ingrediente di un alimento”.  Nel definire quindi, che cosa sia una intolleranza alimentare è bene avere chiara la differenza fra quest’ultima e le allergie, solitamente ben più gravi, sia da un punto di vista sintomatico che per il tipo di riposta infiammatoria innescata. L’EUFIC infatti, prosegue dicendo: “L’allergia alimentare è una forma specifica di intolleranza ad alimenti o a componenti alimentari, che attiva il sistema immunitario. Un allergene ovvero una proteina presente nell’alimento a rischio che nella maggioranza delle persone è del tutto innocua, provoca, nel soggetto allergico, una catena di reazioni del sistema immunitario tra cui la produzione di anticorpi. Gli anticorpi determinano il rilascio di sostanze chimiche organiche, come l’istamina, che provocano vari sintomi: prurito, naso che cola, tosse o asma (Fig. 1)

    Fig. 1

Le allergie agli alimenti o ai componenti alimentari sono spesso ereditarie e vengono in genere diagnosticate nei primi anni di vita”.
Nell’allergia alimentare, quindi, la reazione dell’organismo, all’introduzione di un alimento, normalmente innocuo per la maggior parte delle persone, viene invece percepita, come una minaccia, attivando una serie di reazioni che coinvolgono il sistema immunitario. La reazione dell’organismo all’ingresso di questa “minaccia” ovvero di un allergene, stimola, la produzione di anticorpi, in pratica proteine che si legano ad altre proteine, ovvero agli allergeni, per poterli rendere innocui e quindi eliminarli. In questo complesso meccanismo, una particolare categoria di anticorpi che prende il nome di immunoglobuline E ( Ig E ),  reagisce con l’allergene scatenando una ulteriore reazione con i mastociti (cellule dei tessuti), i leucociti basofili e le piastrine (cellule del sangue) . I mastociti, detti anche mastocellule (dal tedesco mastzellen, "cellula infarcita"), di forma tondeggiante, localizzati al livello del tessuto connettivo, ovvero al di sotto del rivestimento epidermico di naso, gola, apparato respiratorio, occhi e intestino, a seguito del contatto diretto o indiretto con l’allergene, rilasciano una sostanza chiamata istamina o altre sostanze quali i leucotrieni e le prostaglandine, che provocano reazioni, come appunto l’asma, gli starnuti il prurito o l’arrossamento. Le reazioni negative sono immediate e di solito localizzate. Alcune reazioni allergiche impiegano varie ore o addirittura giorni a manifestarsi dopo l’esposizione ad una proteina estranea. In questo caso parliamo di "reazioni di ipersensibilità ritardata". Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, la reazione allergica è di forma lieve, alcune volte però, può essere molto seria ed in rari casi addirittura letale ( vedi shock anafilattico).
L’incidenza delle allergie alimentari nella popolazione, sulla base di diversi studi e trials clinici condotti in doppio cieco, ovvero alternando l’assunzione dell’allergene con un placebo (una sostanza somministrata al paziente come farmaco ma priva di principi attivi), è di circa l’1 - 2%. Apparentemente non sembra tanto, ma proviamo a pensare che in gelateria, ogni 100 persone che entrano, come minimo, una o due di queste soffrono di una qualche forma più o meno grave di allergia alimentare. Nel bambini piccoli e negli adolescenti, questa percentuale, fra l’altro, sale di diversi punti, fino a collocarsi in una media fra il 3 ed il 7%. Fortunatamente, molte di queste allergie alimentari, manifestatesi in età pediatrica, scompaiono o comunque si affievoliscono molto, nel corso dell’adolescenza.
Sebbene le allergie alimentari possano manifestarsi, praticamente con qualsiasi alimento, ne esistono alcuni per cui, le possibilità di scatenare una reazione allergica nei soggetti predisposti, sono maggiori. Fra i principali “allergeni alimentari” ricordiamo le uova, la frutta, le arachidi, la soia, il grano, il latte vaccino e vari tipi di noci e nocciole. In particolare le noci o le arachidi, sono note per essere causa, di reazioni allergiche particolarmente gravi, fino allo shock anafilattico.



Dopo aver chiarito che cosa sia un’allergia alimentare e i suoi meccanismi, possiamo dire che nel caso delle intolleranze alimentari invece, la reazione infiammatoria dell’organismo all’allergene, non è mediata dal sistema immunitario. La diffusione nella popolazione inoltre è solitamente molto maggiore. Da un punto di vista storico-statistico, infatti, un significativo aumento delle intolleranze alimentari, si è avuto a partire dal 1940, quando le abitudini alimentari, degli italiani,  sono cominciate a cambiare. L’introduzione degli alimenti da industria alimentare e l’utilizzo di additivi quali conservanti, coloranti, antiossidanti, ha sensibilmente incrementato le intolleranze, che permangono maggiormente presenti nei paesi più industrializzati, rispetto ai paesi in via di sviluppo. Al giorni d’oggi, in termini probabilistici, qualunque cliente entri in gelateria, potrebbe essere più o meno intollerante ad un qualche ingrediente presente nel gelato. In realtà va precisato che il gelato è un alimento particolarmente a rischio allergeni, proprio perché preparato con uova, latte, frutta secca o a guscio (sostanze inserite nella legge 114/2006). Il rischio contaminazione, ad esempio per il celiaco, potrebbe derivare non solo dalle materie prime ma dalla presenza in tracce, di glutine in alcuni stabilizzanti utilizzati nella produzione, oppure nell’utilizzo di latte in polvere o dei comuni semilavorati in gelateria. Spesso infatti, quando guardiamo la lista ingredienti di un gelato, ci focalizziamo sulle uova, il latte, la frutta. Tutti ingredienti, privi di glutine ma ci dimentichiamo della possibile di contaminazione in tracce, derivante non dalle materie prime ma bensì dagli additivi o da passaggi nella produzione di determinati ingredienti.  



Nella seguente tabella riassuntiva vengono elencate le diverse tipologie di prodotti di possibile utilizzo in gelateria e la loro idoneità per il consumatore celiaco.


Fra le diverse intolleranze,  le due più frequenti, oltre che per incidenza, anche per ordine d’importanza, sono proprio l’intolleranza al glutine e quella al lattosio. Fra l’altro entrambe sono di rilievo per il gelatiere, proprio perché coinvolgono due fra gli ingredienti, maggiormente utilizzati nella produzione del gelato e dei supporti (coni, cialde etc.).

Intolleranza alimentare al lattosio


A norma di legge per “latte alimentare” deve intendersi (art. 15 r.d. 994/9 maggio 1929) “il prodotto ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa, della mammella di animali in buono stato di salute e di nutrizione”. Con il termine latte si intende quello prodotto dalla vacca, ovvero il cosiddetto “latte vaccino” mentre quello proveniente da altri animali porta la denominazione della specie animale che lo produce. Come ogni altro tipo di latte, anche quello vaccino, comunemente utilizzato nella produzione gelatiera è una miscela complessa di componenti di varia natura, presenti sia allo stato di soluzione vera (sali, vitamine idrosolubili, sostanze azotate non proteiche, zuccheri), sia allo stato colloidale (proteine e parte dei fosfati e citrati di calcio) sia allo stato di fine emulsione (lipidi e vitamine liposolubili).  Il latte di vacca, è mediamente composto dal 3,3 – 4% di grassi, 2,8 – 3,3% di proteine, 4,8 – 5% di carboidrati, 0,6 – 0,8% di Sali minerali, e la restante parte 86,9% - 88,5% di acqua (Fig. 2). L’intolleranza alimentare al lattosio, riguarda proprio quel 4,8-5% di carboidrati, ovvero di zuccheri ingeriti e vediamo come questo avviene.


    Fig. 2
 
Il lattosio rappresenta la quasi totalità degli zuccheri presenti nel latte vaccino, con una percentuale del 98% sul quantitativo complessivo di carboidrati. Si tratta di un carboidrato semplice disaccaride, costituito da due monosaccaridi ( Glucosio e Galattosio).  L’indice glicemico del lattosio, ovvero la velocità con cui esso è assimilato dall’organismo umano è pari a (46) ed è circa la metà dell’indice glicemico del glucosio (100). 
Riguardo al consumo di latte in età adulta, va fatta una precisazione doverosa. Tutti i mammiferi ad eccezione dell’uomo, una volta terminato lo svezzamento, cessano di consumare latte. Anche perché le ghiandole mammarie, della madre, smettono di produrne. L’uomo fa eccezione a questa regola, continuando a consumare latte, anche in età adulta, seppur di specie diversa. Secondo molti Biologi, l’introduzione del latte extra-specie, ovvero di una specie diversa, nell’alimentazione umana, è un fatto cronologicamente piuttosto recente e risalirebbe ad una mutazione genetica, avvenuta non più di 7000 anni fa. In pratica, qualche migliaio di anni addietro ci sarebbe stata una mutazione genetica che avrebbe consentito la digestione del latte anche in età adulta, cosa che prima non era possibile.
Una volta ingerito il latte, infatti, affinché il lattosio venga scisso nei due zuccheri semplici (glucosio e galattosio) e quindi possa essere immesso in circolo per essere poi assorbito, è necessario un enzima presente a livello dell’intestino tenue, detto lattasi. La mutazione genetica che avrebbe consentito la persistenza della lattasi, anche in età adulta, non sarebbe diffusa omogeneamente fra la popolazione e ciò spiegherebbe la ragione per cui esistono individui privi di lattasi in età adulta, ovvero incapacitati a digerire il lattosio, mentre altri no. In pratica, mentre nella persona “non intollerante”, il lattosio viene scomposto a livello dell’intestino tenue, dalla lattasi, in glucosio e galattosio, che entrano subito in circolo ematico, nei soggetti intolleranti al lattosio, dove l’attività enzimatica della lattasi è ridotta o in alcuni casi assente, il lattosio prosegue il suo percorso intestinale fino all’intestino crasso, dove subisce una fermentazione ad opera della microflora intestinale locale. Questo comporta sintomi come gonfiori crampi addominali, flatulenza o diarrea.
Secondo alcuni studi, circa il 70% della popolazione mondiale, soffrirebbe di una più o meno ridotta attività dell’enzima lattasi. In Europa, sarebbe invece il 5% della popolazione a manifestare carenza di lattasi, con significative variazioni in base al paese ed al ceppo di origine. Numeri che, fra l’altro, sono in aumento nel vecchio continente, ma non solo. Appare evidente, quindi, che il gelatiere artigianale, dovrà prestare particolare attenzione al fatto che molti dei suoi clienti, potrebbero essere intolleranti al lattosio. Anche in questo caso, una offerta parallela alla tradizionale produzione di gelato, che tenga conto delle necessità, di questo tipo di clientela, può essere un buon modo per differenziarsi dalla concorrenza e ritagliarsi una posizione di nicchia, nel mercato del gelato della propria zona. 

Intolleranza al lattosio: “legislazione e obblighi”
Dal 13 Dicembre 2014, al termine dei tre anni di periodo transitorio dato dal legislatore per adeguarsi, diventerà legge, ovvero “norma cogente”, il Regolamento Europeo 1169/2011 (in vigore dal 2011) che obbliga chiunque tratti alimenti, a produrre un’etichetta completa, chiara e dettagliata che includa l’indicazione degli allergeni.
Fermo restando che, come abbiamo sottolineato in precedenza, quasi tutti gli ingredienti possono dare, nei soggetti predisposti, intolleranze ma che solo alcuni ingredienti possono dare allergie alimentari, la comunità europea, con la direttiva allergeni Dir. 2000/13/CE e successive modifiche ( quali  Direttiva 2001/101/CE, Direttiva2002/67/CE, Direttiva 2003/89/CE, Direttiva 2006/107/CE, Direttiva 2006/142/CE, Regolamento (CE) n. 1332/2008, Regolamento (CE) n. 596/2009 ), ha imposto l’obbligo di indicare, sulle etichette dei prodotti sfusi, ogni sostanza che appartenga all’elenco (Fig. 3) dei potenziali allergeni (così come riportato nell’allegato III del Dlgs n. 114 dell’8 febbraio 2006, in attuazione delle direttive 2003/89/CE, 2004/77/CE e 2005/63/CE in materia di indicazione degli ingredienti contenuti nei prodotti alimentari - GU n.69 del 23-3-2006 - entrato in vigore il 7/4/2006 ), al fine di assicurare un’informazione adeguata e raggiungere un elevato livello di tutela della salute dei consumatori. 



Di fatto, secondo il Regolamento Europeo 1169/2011, la redazione di un etichetta alimentare dovrà essere basata su criteri di assoluta trasparenza ai fini della salvaguardia della salute dei consumatori. L’obbligo sarà quindi, non solo per il prodotto confezionato, ma anche per la vendita sfusa (gelaterie, pasticcerie ecc.). Il cliente dovrà sempre avere a disposizione il libro-giornale degli ingredienti, conoscerne l’origine e le indicazioni allergeniche.
Ricordiamo infine, a riguardo soprattutto della prevenzione del rischio intolleranza al lattosio e quindi in merito alla corretta informazione al cliente, di esporre nella gelateria, il “Cartello Unico”, (Fig. 4) degli ingredienti. Lo schema di cartello unico degli ingredienti che rientra negli strumenti previsti dalla normativa europea (Regolamento Europeo 1169/2011) e nazionale (D.lgs. 109/1992) sulla etichettatura e la pubblicità dei prodotti alimentari a tutela del consumatore, dovrà essere esposto ben visibile al pubblico in tutti gli esercizi in cui si vendono per asporto prodotti di gelateria, pasticceria, panetteria e gastronomia. A partire dal 13 dicembre 2016, , sempre in base al Regolamento Europeo 1169/2011, vigerà l’obbligo, per i produttori, di redigere anche “una  dichiarazione nutrizionale”.


    Fig. 4




 Intolleranza alimentare al glutine (Celiachia)

 
Il termine "celiaco" deriva dal greco koiliakós, "addominale", ed è un vocabolo introdotto nel 1800, grazie alla traduzione di un testo medico antico, redatto nel primo secolo d.c. da parte del medico Areteo di Cappadocia, il quale la denominò “diatesi celiaca”, ovvero  “alterazione intestinale”.

Secondo alcuni studiosi, le origini storiche della malattia celiaca risalirebbero a circa 10.000 anni fa quando fu introdotta la coltivazione dei cereali nella zona della cosiddetta “Mezza Luna Fertile” (Siria, Israele, Iran, Iraq). In seguito, tale coltivazione si estese in tutta Europa, diffondendo, di conseguenza, la malattia in tutto l’occidente. Storicamente, la celiachia era molto meno diffusa di adesso ed in molti si sono chiesti il perché dell’incremento della diffusione di questo disturbo. Una chiave di lettura la da certamente la genetica, ma non può essere considerata la sola responsabile. Certamente la predisposizione genetica ha la sua importanza, come fra l’altro è stato dimostrato dall’individuazione di alcuni geni coinvolti, sul cromosoma 6 (Sollid et al, 2005; Louka et al, 2003; Trynka et al, 2010; Bourgey et al, 2007; Margaritte et al, 2004), ma pare che anche l’ambiente abbia giocato e giochi un ruolo importante nello sviluppo della malattia. Il prolungato allattamento al seno, fino ai quattro anni, nell’antichità e fino a un anno di età, agli inizi del secolo scorso, costituiva, ad esempio, un fattore protettivo, dovuto probabilmente alle difese immunitarie trasmesse dalla madre al piccolo attraverso il latte, e che oggi è andato perso. L’elevata mortalità infantile dei bambini, intolleranti al glutine, inoltre, non consentiva il diffondersi della predisposizione genetica. Non bisogna inoltre dimenticare che secoli addietro i cereali, venivano assunti, solo a seguito di lunghe fermentazioni acide oppure di prolungate cotture, che inattivavano in maniera totale o parziale l'attività tossica, o almeno quella allergenica del glutine. Oggi, la nostra alimentazione è completamente cambiata rispetto al passato. Il diffondersi di molti prodotti a base di grano duro, ricchi di glutine ed una cottura spesso insufficiente, hanno contribuito al diffondersi dell’intolleranza.

L’Associazione Italiana Celiachia (AIC), attualmente la principale organizzazione indipendente italiana che si occupa d’intolleranza al glutine e della tutela delle persone affette, in un recente studio, ha stimato che l‟incidenza della Celiachia nella popolazione è di un caso ogni 100/150 individui. I celiaci italiani, sarebbero quindi, fra le 400.000 e le 600.000 unità. Un numero considerevole ed in costante aumento, sebbene, per molti epidemiologi, sottostimato. Il Professor Richard Logan, ebbe a dichiarare, nel 1992, che “la celiachia è come un iceberg, la cui punta è costituita dai soggetti diagnosticati ed il sommerso da quelli non riconosciuti”.
Ma che cos’è esattamente la celiachia ?
Meglio definita come “intolleranza al glutine”, la celiachia in realtà è una intolleranza ad alcuni tipi di proteine di cui il glutine è costituito, ovvero le “prolammine”. Tali proteine, contenute in alcuni cereali, per ingestione indurrebbero in individui geneticamente predisposti, il morbo celiaco. Il glutine (dal latino gluten = colla), è una proteina che si origina dall'unione, in presenza di acqua ed energia meccanica, di due tipi di proteine: la gliadina e la glutenina, prolammine presenti principalmente nell'endosperma delle cariosside di cereali quali frumento, farro, segale, avena e orzo. I celiaci, a seguito d’ingestione di quantitativi anche minimi di prolammine, sviluppano dei danni più o meno marcati alla mucosa dell’intestino tenue (Fig. 5)



L’alterazione morfologico-funzionale della parete del lume intestinale, comporta una sintomatologia immediata come gonfiore addominale, crampi, diarrea, ma a causa dell’alterazione nell’assorbimento dei principali nutrienti, può portare nel tempo, a patologie autoimmuni, quali ileite ulcerativa, dermatite erpetiforme o addirittura a neoplasie dell’intestino tenue. Attualmente si stima che l’80% degli ammalati di celiachia non ne sia consapevole.
Nel soggetto intollerante, una volta ingerito un qualunque alimento contenente glutine ed una volta che il “bolo alimentare” raggiunge il primo tratto intestinale, ovvero quello dell’intestino tenue, le pareti di rivestimento di quest’ultimo si danneggiano, precludendo le normali funzioni di assorbimento dei nutrienti essenziali quali grassi, proteine e carboidrati. I sintomi includono astenia (debolezza), crampi e dolori addominali, diarrea e perdita di peso. L’esclusione di alimenti contenenti glutine, gradualmente porta alla remissione dei sintomi ed all’autoriparazione dei danni intestinali.
L’intolleranza al glutine può comparire sia nel bambino che nell’adulto a qualunque età. Solitamente la celiachia nel bambino, compare dopo lo svezzamento a distanza di un mese dalla prima introduzione del glutine. La sintomatologia nella maggior parte dei casi, evidenzia un quadro clinico caratterizzato da diarrea, vomito, anoressia, irritabilità, arresto della crescita o calo ponderale. Nell’adulto invece, la celiachia può comparire a qualsiasi età, solitamente a seguito di un forte stress o di una infezione intestinale


Intolleranza al glutine: “legislazione e obblighi”
Come già ricordato per l’intolleranza al lattosio, così come per qualunque altra eventuale e potenziale intolleranza in gelateria, la normativa principale a cui bisogna fare riferimento è il D.lgs. 109/1992  e soprattutto il nuovo Regolamento Europeo 1169/2011 che obbliga chiunque tratti alimenti, a produrre un’etichetta completa, chiara e dettagliata che includa l’indicazione degli allergeni a margine di ciascun ingrediente o per diversa sua fonte. Il testo attuale del regolamento (UE) n. 1169/11, d‘altra parte, non sembra lasciare molto spazio al buon senso. Viene infatti prescritto di ripetere la presenza di ingredienti allergenici, pur già segnalati, in relazione a ogni loro specifica fonte: ingredienti, additivi, coadiuvanti o altro.
Nel caso della celiachia, è importante quindi, per il gelatiere, garantire la corretta comunicazione degli ingredienti presenti nel gelato ed in tutti quei composti ove è presente glutine, anche in tracce. Ogni prodotto deve essere accompagnato da relativa composizione che può essere riportata in un cartello vicino ad ogni singola preparazione, nei pressi della vetrina espositiva, con il cartello unico ben visibile o con qualunque altro metodo che permetta un facile ed intuitivo collegamento tra singolo prodotto ed indicazione dei rispettivi ingredienti ed eventuali allergeni, come il glutine nel caso specifico.


La preparazione di un gelato privo di glutine, ad ogni modo, presuppone un’attenzione e spesso, laddove possibile, una suddivisione delle linee produttive, che non si può improvvisare. Tutte le fasi di produzione di un gelato privo di glutine, dovranno essere perfettamente separate da quella del gelato tradizionale, a partire dall’approvvigionamento delle materie prime, al trasporto che dovrà garantire contenitori a chiusura ermetica perfetta, allo stoccaggio, alla produzione sino ad arrivare agli utensili adoperati nella fase di somministro. In quei casi in cui, per diverse ragioni non sarà possibile differenziare le due linee produttive, esse dovranno essere diversificate nel tempo e i processi di pulizia e sanificazione dei macchinari e degli utensili, rigorosi controllati ed inclusi come punti critici CP, nel piano di autocontrollo, proprio per evitare qualunque contaminazione crociata in tracce, di glutine.

A tal proposito ricordiamo che l’AIC (Associazione Italiana Celiachia) ha varato un progetto interessante e già attivo, che mira a creare un network di gelaterie informate e sensibilizzate, sulle modalità di preparazione e somministrazione del gelato privo glutine. In suddette gelaterie che espongono un logo (Fig. 6), il personale ha seguito corsi appositi, tenuti da personale qualificato AIC, sui requisiti e le modalità di preparazione di un gelato sicuro e privo di glutine. 
( di Mario Albano )



" IL GELATO BIOLOGICO "




L’albero di mele si stagliava alto al centro del prato antistante l’ingresso della casa in campagna. Ricordo mio padre in equilibrio sulla scala, che sceglieva quelle più mature e le raccoglieva in un cesto di vimini. L’aspetto era assai diverso da quelle in vendita al mercato. Erano più piccole e meno belle, ma avevano un sapore pieno e intenso. Lui mi sorrideva, porgendomene alcune: ”Sono biologiche, mangiale!”. “Puoi fidarti!”. Allora non conoscevo, il significato di “alimento biologico” e non sapevo cosa vi fosse dietro quel termine, ma pensai che un giorno, ne sarebbe valsa la pena approfondire l’argomento. 

L’etimologia del termine “Biologico” deriva dal greco Biòs (vita) e Lògikos (attinente al discorso). Da ciò se ne evince, pertanto, che se la biologia è lo studio della vita, in altre parole della natura nel suo complesso, parlare di “alimento biologico” equivale a dare la definizione di “un prodotto realizzato, secondo metodiche e disciplinari, in armonia con la natura”. Sembrerebbe tutto molto semplice eppure, dietro l’apparente semplicità del lemma, in realtà si nasconde un mondo complesso e affascinante. La stessa definizione di alimento biologico sarebbe di per se errata. Bisognerebbe, infatti, parlare di alimento proveniente da agricoltura o allevamento biologico, poiché a essere biologico, non è soltanto il prodotto finale, bensì il metodo di produzione nel suo complesso. In altre parole, il semplice aggettivo non basta a definire l’alimento biologico in quanto tale, ma è l’intera filiera produttiva a monte dello stesso che deve altresì soddisfare i requisiti “Bio”. Benché non esista, una definizione univoca di “alimento biologico” possiamo tuttavia dire che, con suddetto termine, s’intende un prodotto ottenuto attraverso pratiche agricole o di allevamento che non prevedono l'ausilio d’alcun tipo di prodotto chimico di sintesi o di OGM (Organismi Geneticamente Modificati) e rispettando l'equilibrio naturale dello stesso. 

Fatta questa premessa, a questo punto è opportuno chiedersi come nasce un gelato bio e soprattutto quando un gelato può definirsi biologico? Domande a cui il gelatiere del nuovo millennio può e deve saper dare una risposta. Questo non soltanto perché somministrare un alimento che soddisfi i requisiti del “biologico” è certamente una sfida interessante, ma anche perché ci troviamo di fronte ad un mercato in costante crescita, che può garantire notevoli soddisfazioni anche dal punto di vista economico. 

In quest’articolo, vedremo come si ottiene un alimento biologico, in questo caso il gelato, tenendo conto delle varie fasi del processo produttivo, e dei singoli ingredienti, senza trascurare l’assetto legislativo e alcuni cenni storici che ci consentiranno di comprendere al meglio, come si è giunti agli attuali sviluppi di mercato.


La storia del biologico

Il secolo scorso è stato teatro d’importanti cambiamenti che hanno interessato molti aspetti della nostra vita quotidiana, non ultimo quello concernente l’alimentazione. Per millenni l’uomo si è nutrito di prodotti derivanti, dalla coltivazione della terra e dall’allevamento del bestiame. Le piante, in particolare, con cui venivano nutriti gli animali, erano coltivate utilizzando metodi del tutto naturali. I micro e macro nutrienti, di cui ogni pianta ha bisogno per vivere, erano attinti e preservati nel terreno, utilizzando le conosciute tecniche di rotazione agricola, ovvero alternando le colture dei campi di modo da non impoverire il suolo di determinati elementi. Ciascuna coltivazione, infatti, attinge dal suolo i nutrienti, in misura e percentuali diverse rispetto ad altre cultivar. L’alternanza delle cultivar è un fattore quindi essenziale, al fine di preservare l’equilibrio chimico del suolo, la biodiversità sul territorio, oltre che sfavorire l’attecchimento di molti parassiti. 

Questo stato di cose è durato millenni, fin quando nel corso della prima metà del secolo scorso, due fenomeni fecero la loro comparsa, in particolare nel mondo occidentale. Eventi che gettarono le basi per un cambio radicale nei processi agricoli e zootecnici tradizionali. 

Il primo cambiamento avvenne durante i primi anni “30, quando il chimico tedesco Justus Von Liebig, introdusse il concetto innovativo secondo cui, apportando al terreno, di forma artificiale, elementi come potassio, azoto, fosforo, sotto forma di sali inorganici e urea, si potevano garantire alle piante i nutrienti di base, senza ricorrere alle consuete tecniche di rotazione.  La scoperta segnò l’avvento e la diffusione delle colture specializzate e intensive. 

Il secondo cambiamento vide, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, l’immissione sul mercato di una vasta gamma di fitofarmaci e antiparassitari derivanti dalla ricerca messa in atto dall’industria chimica durante il periodo bellico. Il miraggio della possibilità d’ottenere eccezionali livelli produttivi, grazie a sostanze chimiche a basso costo, favorì la diffusione massiva e a livello globale di queste sostanze. In pochi anni si passò quindi, da piccoli e numerosi appezzamenti di terreno coltivati con metodi del tutto naturali e secondo sistemi di coltivazione alternata, a immense distese di raccolti intensivi e specializzati, su cui venivano utilizzati pesticidi, anticrittogamici e altre sostanze chimiche, spesso in quantità oltre le soglia di sicurezza consentita. Gli effetti avversi non tardarono a manifestarsi. Il picco che segnò livelli d’intollerabilità e che spinse molti esperti a ricorrere ai ripari, si registrò a cavallo degli anni “70-80” quando furono resi noti i problemi di tossicità di alcuni pesticidi ad alta residualità ambientale. Molti ricorderanno lo scandalo sul para-diclorodifeniltricloroetano comunemente conosciuto come DDT. In Italia in particolare, il problema toccò livelli insostenibili, quando dati statistici attendibili, segnalarono a fine anni ottanta, che la sola Emilia Romagna utilizzava un quantitativo di fitofarmaci e concimi di sintesi, superiore a quello di tutta la Germania occidentale. In questo contesto nasce impellente, prima negli Stati Uniti d’America e poi in Europa, parallelamente al fenomeno internazionale ambientalista degli anni settanta, la necessità di ritornare a una forma d’agricoltura sostenibile che tenesse conto di tutte quelle informazioni, osservazioni e sperimentazioni custodite per millenni in seno alla saggezza contadina dei popoli e che pochi decenni d’industrializzazione e pratiche intensive avevano quasi spazzato via completamente. 

In risposta a questo crescente bisogno, già nel corso della prima metà degli anni settanta, molte aziende agricole, in particolare in USA ed Europa, ricominciarono a produrre “alimenti biologici”, con metodiche agricole tradizionali e senza l’ausilio d’alcun tipo di prodotti chimici di sintesi. Anche in Italia, nello stesso periodo, fecero la loro comparsa associazioni e singoli agricoltori che si occupavano di “Bio”, ma fino a quel momento erano pochi e male organizzati. Le difficoltà produttive e i costi spesso insostenibili, inducevano i più a desistere nell’intento. D’altra parte ancora non esisteva una chiara legislazione nazionale in materia. Si dovette attendere la fine degli anni “80, quando emerse chiara l’esigenza di “regolamentare” il sistema biologico italiano. Nel 1982 nasce la “Commissione nazionale cos'è biologico”, con l'adesione dei movimenti dei consumatori, dei coordinamenti regionali e delle organizzazioni dei produttori. La commissione si trasforma in seguito in AIAB (Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica) che nel 1988, presenta le prime “Norme italiane di agricoltura biologica”. Da allora in poi, il mercato italiano del biologico, ha avuto una crescita costante sino all’attuale contesto, che vede il nostro paese, secondo i dati statistici comunicati dal SINAB (Il Sistema di Informazione Nazionale sull'Agricoltura Biologica, realizzato dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali in collaborazione con le Regioni) fra i principali produttori nella classifica mondiale per superficie destinata alle colture biologiche, con ben 1.113.740 ettari (dati 2010).


La legislazione

La prima direttiva comunitaria in tema “Bio” fu varata nel 1991 dalla commissione europea dell’allora Europa a quindici membri e pose fine alle quindici differenti agricolture bio nazionali europee, definendo un metodo biologico e un marchio, unici a livello comunitario.  Il Reg. CE 2092/91, nello specifico, definiva l’agricoltura Biologica come quel “sistema di gestione dell'azienda agricola che comporta restrizioni sostanziali nell'uso di fertilizzanti e antiparassitari, ai fini della tutela dell'ambiente e della promozione di uno sviluppo agricolo durevole”. Per elaborare questa definizione, la comunità europea si avvalse del Codex Alimentarius, un insieme di norme varate dai maggiori esperti a livello internazionale, ancora oggi, punto di riferimento per molte questioni in ambito agricolo e zootecnico.  

Il Codex considera “l'agricoltura biologica come un sistema globale di produzione agricola (vegetale e animale) che privilegia le pratiche di gestione piuttosto che il ricorso a fattori di produzione di origine esterna”. Secondo questa visione, i metodi colturali, biologici e meccanici vengono impiegati di preferenza al posto dei prodotti chimici di sintesi. Con il Reg. CE 2092/91 si regolamentava in sostanza, il metodo di produzione in ambito agricolo e l'indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari. Si dovette attendere, qualche anno più tardi, nel 1999, quando con il Reg. CE 1804/99 vennero regolamentate anche le produzioni animali. In seguito un’ulteriore revisione del Reg. 2092/91 portò nel 2005 alla nascita di due proposte da parte della Commissione Europea, volte ad un'ampia semplificazione e ad un miglioramento della normativa comunitaria, sia in tema d’importazione ed esportazione dei prodotti biologici, che di produzione ed etichettatura: la prima proposta si concretò con il Reg. del Consiglio 1991/2007, che di fatto applicava una modifica al Reg. CE. 2092/91 in tema di commercio internazionale, ed entrò in vigore dal gennaio 2007. L'altra, tuttora di grande rilevanza, il Nuovo Regolamento (CE) n. 834/2007 del 28 giugno 2007, sulla produzione biologica, controlli ed etichettatura dei prodotti biologici, fornì la definizione della produzione biologica, il suo logo e il sistema di etichettatura ed entrò in vigore dal 1° gennaio 2009.  

Secondo il Reg. (CE) 834/2007, l’agricoltura biologica è quel “sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali. Il metodo di produzione biologico esplica pertanto una duplice funzione sociale, provvedendo da un lato a un mercato specifico che risponde alla domanda di prodotti biologici dei consumatori e, dall’altro, fornendo beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale”.  Il Reg. (CE) 834/2007 venne, più tardi, completato dalle “norme tecniche di applicazione” contenute nel Reg. (CE) 889/2008 della commissione del 5 settembre 2008, pubblicato sulla GUUE L 250 del 18/09/2008. Un regolamento quest’ultimo, davvero molto atteso dagli addetti al settore. Se infatti è il Reg. (CE) 834/2007, ad indicare sinteticamente obiettivi, principi e norme generali sulla produzione biologica, è il Reg. (CE) 889/2008 a stabilirne le norme applicative più specifiche e dettagliate. Attualmente, in definitiva il Reg. (CE) N. 889/2008 e il Reg. CE n. 834/2007, sono la principale normativa a cui fare riferimento, in ambito “biologico”. 

Vi è inoltre, da tener presente il Reg. UE N. 271/2010 della commissione del 24 marzo 2010 recante modifica del regolamento (CE) n. 889/2008, in cui si disciplina, l’utilizzo del nuovo logo biologico UE ( Fig. 1) . Nel regolamento si cita che Il logo biologico dell’UE è utilizzato soltanto se il prodotto di cui trattasi è prodotto nel rispetto dei requisiti stabiliti dal regolamento (CEE) n. 2092/91 e dai suoi regolamenti d’applicazione o dal regolamento (CE) n. 834/2007 e dei requisiti stabiliti nel presente regolamento. Infine vi è una consistente normativa nazionale che recepisce ed integra la normativa comunitaria, fra cui ci limitiamo a citare il Decreto Ministeriale n. 18354 del 27/11/2009, recante “Disposizioni per l’attuazione dei regolamenti (CE) n. 834/2007, n. 889/2008, n. 1235/2008 e successive modifiche riguardanti la produzione biologica e l’etichettatura dei prodotti biologici”.


Il gelato biologico

Moda passeggera o filosofia di vita poco importa, ciò che conta è che il mercato del gelato biologico ha un trend in continua crescita. Secondo gli ultimi dati forniti dall’'ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), il solo 2010 ha visto in Italia, una crescita del comparto alimentare legato all’agricoltura sostenibile, dell'11,6% su base annua.  Tra i prodotti di punta, il 2010 ha evidenziato un'ottima performance per i lattiero caseari (+13,2% sulla spesa domestica rispetto al 2009) e per l'insieme costituito da biscotti, dolciumi e snack (+13,5%).  Nord-Est e Mezzogiorno, rileva l’istituto, sono le macroripartizioni geografiche in cui emergono i maggiori incrementi. anche se il Nord-Ovest è l'area con la più alta incidenza sulla spesa nazionale.  Il consumo di prodotti biologici si conferma, comunque, un fenomeno localizzato prevalentemente nel Nord Italia, che concentra da solo oltre il 70% degli acquisti. 

Nonostante l’”apripista” del mercato Bio, dopo la vendita diretta, sia stata la GDO, la vendita al dettaglio seppure poco rilevante, è il canale che ha fatto segnare la crescita più marcata con un + 29,3%. La produzione del gelato artigianale biologico, nello specifico. si attesta in ascesa in tutta Europa e dopo la grande distribuzione, la sfida si sposta alle gelaterie artigianali, dove sono sempre più numerosi i maestri gelatieri che si misurano nell’affiancare ai propri gusti tradizionali, gusti di gelato biologico realizzati attraverso l’impiego di materie prime selezionate e certificate. 

Affinché un gelato possa essere etichettato come biologico, infatti, dovrà centrare i criteri stabiliti dalle normative comunitarie e nazionali citate in precedenza in quest’ articolo. Nello specifico, al capo quarto, Art. 19, comma 1, del Reg. CE 834/2007, relativo alla produzione di alimenti biologici trasformati, si legge testualmente “La preparazione di alimenti biologici trasformati è separata nel tempo o nello spazio dagli alimenti non biologici”, ciò vuol dire che il gelatiere che si accinga a preparare alcuni gusti di gelato biologico da affiancare alla sua consueta produzione, dovrà farlo, destinando momenti specifici della giornata lavorativa alla produzione dello stesso, affinché non vi sia contiguità fra le due produzioni, e quindi in definitiva, affinché non vi sia “contaminazione” fra le due produzioni. Gli operatori del settore alimentare, infatti, secondo il Regolamento applicativo CE 889/2008 Cap. 3, Art. 26, Comma 4, nel produrre un alimento biologico “adottano misure precauzionali per evitare il rischio di contaminazione da parte di sostanze o prodotti non biologici o comunque non autorizzati”, e inoltre qualora nello stesso ambito produttivo siano immagazzinati, prodotti o trasformati anche alimenti “non biologici”, gli operatori “ effettueranno le operazioni in cicli completi senza interruzioni e provvederanno affinché esse siano separate fisicamente o nel tempo da operazioni analoghe effettuate su prodotti non biologici” e comunque “ eseguiranno le operazioni sui prodotti biologici solo dopo un'adeguata pulizia degli impianti di produzione”. Sempre secondo il Reg. CE 889/08, il gelatiere che riceva la fornitura di materie prime (che ricordiamo dovranno essere certificate), da destinare alla produzione di gelato biologico, dovrà stoccarle in magazzino tenendole separate dalle altre e quindi, - si legge nella normativa - “provvederà al magazzinaggio dei prodotti biologici, prima e dopo le operazioni, separandoli fisicamente o nel tempo dai prodotti non biologici”. Vale la pena aggiungere che, questa netta distinzione fra produzione di gelato bio e convenzionale, dovrà estendersi anche agli utensili e accessori dedicati; quindi vaschette, palette, bicchieri etc. Insomma tutto ciò che sarà utilizzato per il gelato convenzionale non potrà essere utilizzato per il gelato bio, eccezion fatta ovviamente, per i macchinari che però dovranno subire accurata previa sanificazione, prima di procedere alla produzione biologica. Tenuto conto di questi accorgimenti nella scelta dei fornitori, nella ricezione delle materie prime, nello stoccaggio e nella pulizia, vediamo adesso cosa ci attende, nella fase di produzione. Innanzitutto gli ingredienti base dovranno, come già detto, essere certificati biologici lungo tutta la filiera produttiva e la loro percentuale minima dovrà essere del 95%. Essa si riferisce al “totale degli ingredienti ad eccezione dell’acqua e del sale da cucina aggiunti”. Nella produzione del gelato biologico sono inoltre, ammessi additivi ed eccipienti, purché ritenuti idonei dalla normativa quadro, così come riportato nell’All. VIII del Reg. 889/08. Fra gli additivi consentiti ricordiamo ad esempio (carragenina, acido citrico, acido ascorbico, gelatina, colla di pesce etc.). Gli aromatizzanti consentiti nella produzione del gelato bio, saranno a loro volta, esclusivamente di origine naturale. Non è consentito altresì l’utilizzo di coloranti di sintesi o additivi se non presenti nel disciplinare della normativa comunitaria. Sono invece consentiti nel processo di trasformazione dell’alimento biologico, alcuni alimenti non biologici, ritenuti innocui o comunque idonei dalla commissione ed elencati nell’allegato IX del Reg. 889/08 fra cui ricordiamo: (Frutti e semi commestibili come: Ghiande, Noci di cola, Uva spina, Frutti della passione, Lamponi essiccati, Ribes rosso essiccato), (Grassi ed oli vegetali anche raffinati purché non modificati chimicamente ottenuti da: Cacao, Cocco, Olivo, Girasole, Palma, Colza, Cartamo, Sesamo, Soia), (Zuccheri, amidi e altri prodotti ottenuti da cereali e tuberi come: Fruttosio, Cialde di riso, Sfoglie di pane azzimo, Amido di riso e granturco ceroso chimicamente non modificato). Nella produzione del gelato bio, il gelatiere dovrà inoltre accertarsi che nessun ingrediente ammesso sia ottenuto o derivato da OGM (Organismi geneticamente modificati). Quando la percentuale d’ingredienti biologici utilizzati, oscilli fra il 70 ed il 95%, l’operatore dovrà, altresì, apporre sul prodotto, una etichetta indicante l’elenco e l’esatta percentuale degli stessi e non potrà avvalersi del logo UE. Nel caso la percentuale d’ingredienti biologici utilizzata, come già detto, superi invece il 95%, non sarà necessario riportare la percentuale d’ingredienti biologici ma basterà applicare al prodotto il logo comunitario (Fig.1). Tuttavia, nel caso la percentuale d’ingredienti biologici superi o sia pari al 95%, ma non raggiunga il 100% del prodotto, la percentuale residua dovrà, comunque, rientrare fra i componenti consentiti ed elencati nel disciplinare europeo. Affinché questi obblighi siano rispettati, la normativa comunitaria istituisce degli organismi di controllo che vigilano sulle aziende. 

Gli organismi di controllo preposti, sono di solito enti privati a cui la legge assegna il compito di verificare il rispetto dei regolamenti attuativi da parte delle aziende biologiche e di rilasciare, a fronte di visita ispettiva il “Documento giustificativo” ovvero il “Certificato di conformità” secondo quanto stabilito dall’art. 29 del Reg. CE 834/2007 e concedere di seguito, il marchio da apporre alle etichette dei prodotti venduti. Gli organismi di controllo, meglio conosciuti come “Enti certificatori di prodotti biologici”, sono a loro volta riconosciuti e autorizzati dal Ministero delle politiche agricole e forestali. Il gelatiere che decida, quindi, d’avviare la produzione e somministrazione di gelato biologico, dovrà notificarlo in duplice copia all’assessorato all’agricoltura della propria regione d’appartenenza e all’ente di certificazione prescelto, che si occuperà fra l’altro della visita ispettiva e del rilascio dei certificati d’idoneità oltre che del logo. Ricordiamo che gli enti di certificazione sono preposti al controllo ed alla verifica e non all’assistenza tecnica. 

A proposito del logo inoltre, è bene sottolineare, che sulla base della normativa comunitaria, esso si deve apporre ai prodotti chiusi confezionati ed etichettati con una percentuale prodotto di origine agricola bio almeno del 95%, quindi, nel nostro caso, solo sui gelati confezionati. Per i gelati freschi sarà sufficiente apporre il “cartello unico”, dove s’informerà il cliente sulla genuinità del prodotto bio e dei suoi ingredienti. Risulta del tutto evidente, alla luce di quanto sopra esposto, che la sfida, del gelatiere che decida d’offrire alla propria clientela del gelato biologico, si gioca sostanzialmente su due fronti:”l’attenta scelta delle materie prime e quindi dei fornitori e un’accurata pianificazione e gestione della produzione di gelato bio che dovrà nettamente separarsi dalla convenzionale”. In realtà, la capacità di saper trasmettere al cliente questa distinzione fra le due produzioni è un fattore chiave di successo. 

Il biologico ha un suo linguaggio oltre che una sua filosofia ed è bene che il gelatiere ne tenga conto affinché il messaggio passi in maniera chiara e inequivocabile al cliente. Un adeguato addobbo della vetrina dedicata al biologico nonché creatività e gusto nella presentazione del gelato, che rimandi ai temi della natura e del vivere sano, sarà certamente un valore aggiunto su cui investire. 

Il cliente del biologico, d’altra parte è di solito un cliente attento e sensibile ai temi ambientali e della salute e gli addetti del settore, generalmente lo distinguono secondo tre profili: ”L’attento, il curioso e l’informato”. L’attento è colui che presta molta attenzione alla salute sua e della sua famiglia e per cui cerca nel prodotto biologico quella garanzia di genuinità e quella “rassicurazione”, che altri prodotti non riescono a trasmettergli. Il curioso, invece è colui che passando di fronte al negozio, in questo caso alla gelateria, e vedendo il gusto bio, decide d’entrare per provare la novità e soddisfare la sua sete di curiosità. L’informato infine, è colui che ha letto e studiato le caratteristiche del biologico, ne conosce tutti gli aspetti e decide d’acquistarlo con ragion di causa. 

Al di là di questo, in conclusione, possiamo dire che biologico è certamente sinonimo di qualità. Scegliere un gelato biologico vuol dire niente grassi idrogenati, aromi sintetici, stabilizzanti o coloranti artificiali. Le materie prime accuratamente selezionate, certificate e provenienti da produttori conosciuti e affidabili, garantiscono che le basi per un prodotto d’eccellenza, ci siano tutte. I parametri estremamente rigorosi e selettivi nella concessione del logo comunitario, fanno si che il cliente attento e sensibile si senta rassicurato sulla genuinità e sia quindi disposto a pagare quel sovrapprezzo che attualmente caratterizza i prodotti bio rispetto ai convenzionali. Dedicarsi al biologico può quindi essere una scelta appagante sia dal punto di vista professionale che remunerativo. Certamente bisogna essere disposti a dedicarvi tempo sia in termini d’aggiornamento sia di maggiore attenzione in fase produttiva ed espositiva. 

La sfida ad ogni modo è interessante ed è aperta, non resta che raccoglierla, non accontentandosi mai della mediocrità ma puntando sempre all’eccellenza e ricordandosi che acquistare un prodotto biologico, spesso vuol dire contribuire alla salvaguardia di un piccolo appezzamento produttivo di alta montagna che senza questa tipologia di mercato, probabilmente avrebbe già chiuso i battenti da un pezzo. ( di Mario Albano )